A pochi giorni dalla partenza, Cannes 72 sembra non aver ancora regalato alla critica un vero e proprio colpo al cuore, lasciando che sia il glamour, per il momento, ad avere la meglio sulla gioia cinefila. Dopo l’accoglienza piuttosto fredda per gli zombie di Jim Jarmusch, che ha aperto il Concorso ufficiale con il divertissement The Dead Don’t Die, i film che hanno inaugurato le altre sezioni sono stati ugualmente al di sotto delle aspettative.
La Femme de mon frère, che ha aperto Un Certain Regard, vede al suo debutto come regista l’attrice canadese Monia Chokri, “musa” dell’enfant prodige Xavier Dolan, che infatti era in sala per applaudirla, in attesa del suo passaggio al Concorso ufficiale con Matthias et Maxime. Chokri è passata dietro alla macchina da presa per raccontare, con il piglio già dimostrato in Les Amours Imaginaires di Dolan, una storia di gelosia. Questa volta, però, al centro non c’è un ragazzo conteso da due ventenni adoranti, bensì un uomo che ha finalmente trovato la donna della sua vita e prende le distanze dalla sorella, verso cui ha sviluppato un rapporto quasi simbiotico. Non è semplice apprezzare un’opera che tende a passare da un registro comico e popolare a uno più intimista e autoriale in maniera tanto schizofrenica. Eppure questa eterogeneità, che se ben gestita potrebbe diventare il cuore pulsante di un film, si fa semplicemente manifesto dell’indecisione della regista, e dellla sua difficoltà a sacrificare la patina artistoide che affetta ogni sequenza, tra stucchevoli citazioni colte, zoom, ralenti, vacui slanci lirici. Peccato, perché la scena al ristorante italiano, con la protagoinista alla prese con un indesiderato appuntamento al buio, è davvero irresistibile. Così come l’idea di raccontare l’impossibilità della solitudine in un’epoca fortemente individualista.
In Concorso, invece, l’attualità è entrata prepotentemente in gioco, grazie alle banlieu raccontate in Les Misérables di Ladj Ly e l’era Bolsonaro immaginata dai brasiliani Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles in Bacurau. Qui, in particolare, la cronaca recente è stata trasfigurata in un western dalle tinte surreali che lascia ben poco all’immaginazione, raccontando vita, amore e morte di una piccola comunità brasiliana dispersa nell’entroterra. Un microcosmo in cui medici, musicisti, prostitute, adulti e bambini convivono pacificamente, facendo della condivisione l’elemento fondante della loro quotidianità. È il mondo esterno, corrotto dal capitalismo e dalle sue peggiori derive, a voler mettere fine a tutto questo, perché Bacurau è una realtà che non ha più diritto di cittadinanza nella contemporaneità: per questo è stata letteralmente cancellata dalle mappe satellitari. Benchè il discorso portato avanti dai due registi non suoni esattamente nuovo, va riconosciuta loro una visionarietà che difficilmente è possibile trovare in pellicole che riflettono sui medesimi temi. E il coraggio di lavorare su alcuni tabù e ossessioni dell’Occidente attraverso un immaginario legato alla mitologia e al folklore della loro parte di mondo. Un’ottica “altra” e disturbante attraverso la quale, ogni tanto, è bene osservarsi.
Francesca Monti