Intervista con Meinrado Robbiani su lavoro, sviluppo e prospettive
Qualche anno fa, al termine di una densa intervista con il Cardinale basilese Kurt Koch, Prefetto del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, gli chiesi qual è il peccato che lo indigna di più e che, se non fosse prete, non perdonerebbe. Il porporato dapprima si stupì un po’ della domanda e dopo una breve pausa di riflessione mi spiegò: «L’egoismo, la concentrazione ossessiva su sé stessi di averi, questa dilagante autosufficienza del singolo. L’uomo è un essere portato alla comunione con gli altri». Fece poi seguire qualche valutazione sul consumismo e le sue derive, quella spirale economico-sociale in cui porta il meccanismo della produttività e dei suoi effetti che si riassumono nei verbi comperare e possedere che sono anche una nostra vetrina, uno status symbol. Sappiamo tutti per esperienza diretta e quotidiana quanto sia diffuso il fascino, che diventa spesso una sindrome, della visibilità.
Sono aspetti e fenomeni rimbalzati ancor più sulla scena dell’attualità globale con il ritorno alla Casa Bianca del Presidente degli Stati Uniti, di cui è icona il discorso inaugurale sull’America che con lui e grazie a lui ritornerà all’età dell’oro. La marcia trionfale di un nuovo corso dove più della politica intesa come servizio si vedono alla ribalta banchieri, grandi investitori, le grandi multinazionali della tecnologia e dell’informativa. Messaggi espliciti che non hanno bisogno di traduzione. Idem per le scelte in materia di clima, ambiente, con tanti saluti alla necessità di sviluppo per energie alternative. Avviso ai naviganti estremamente chiaro. Ne abbiamo parlato con l’ex-Segretario cantonale dell’OCST ed ex-Consigliere nazionale, Meinrado Robbiani.
Ambiente, sviluppo e consumi responsabili
Meinrado Robbiani, le macchine producono e la gente deve consumare, ma non è una spirale perversa? Il consumismo è un mito intramontabile? E Verso dove stiamo andando?
Qualcuno ha avuto modo di affermare che la crescita è la religione del mondo moderno. Si potrebbe aggiungere: una religione profana che si tramuta in un ricatto strutturale. Qualora la crescita si inceppasse, a risentirne non sarebbe infatti solo l’economia, bensì la popolazione intera con aumentata disoccupazione e infranto benessere. Non sembra perciò rimanere altro che sostenere incessantemente la domanda di beni e servizi e perciò la produzione: se del caso, con interventi pubblici. Occorre cioè preservare un consumo robusto così da presidiare occupazione e reddito; reddito per alimentare ulteriore consumo e così via.
Ci si rende tuttavia conto che in un mondo finito una crescita infinita è difficilmente concepibile.
La crisi climatica e il degrado ambientale ce lo richiamano con insistenza. È perciò necessario avere il coraggio di riportare il concetto stesso di crescita al centro di una rinnovata e rigorosa riflessione. Occorre in primo luogo saper riconoscere che la crescita finora imperante, incentrata ampiamente attorno ai beni materiali, appare difficilmente sostenibile. Fanno eccezione quei Paesi e quelle popolazioni che hanno il diritto di ricuperare benessere anche materiale. Una possibile via d’uscita risiede nell’adeguare la natura e il genere di crescita. Per le società più avanzate ne deriva una duplice necessità:
- da un lato disaccoppiare la crescita dall’impiego sproporzionato di materia fisica, puntando prioritariamente sui beni immateriali e sui servizi; cioè sulla qualità più che sulla quantità;
- dall’altro, laddove ci si colloca nel bisogno di beni materiali, puntare a prodotti che incorporano un volume più ridotto di materia e soprattutto ricostituibile secondo un processo circolare (concependo i prodotti sin dall’inizio, in modo che possano essere riparati, riutilizzati, riciclati). Il tutto condito da un consumo che diventi più consapevole e responsabile.
La sostenibilità chiede coerenza e concretezza
Questo modello di capitalismo, tutto basato sulla quantità, è sostenibile?
Il modello che è andato imponendosi negli ultimi decenni e che si è intrecciato con la globalizzazione ha sì consentito a numerosi Paesi meno avanzati di agganciarsi al processo di mondializzazione dell’economia, attivando una positiva crescita economica. Si è però rivelato afflitto da due tare genetiche devastanti:
- una imponente esplosione delle disuguaglianze,
- e una pesante devastazione degli equilibri ambientali.
Sono due tare che non sono escrescenze accidentali, ma piuttosto il frutto di un modello sbilanciato sul breve termine. Ed è un modello:
- asservito agli interessi dell’azionariato;
- dominato da grandi gruppi produttivi, finanziari e tecnologici;
- aspirato in una smisurata concentrazione del potere;
- ammaliato dalla speculazione sul versante della finanza;
- impastato con un consumismo smodato.
E al punto in cui siamo sia a livello internazionale, sia dopo i proclami trumpiani e i suoi inquietanti ordini esecutivi, dove si può cercare una possibile quadra?
Correggere questo modello è urgente e improrogabile. Non si tratta solo di rettificarlo marginalmente. In relazione al suo distruttivo impatto ambientale, è fuorviante ritenere di potersi limitare a rimpiazzare un’energia con un’altra (dalle fonti energetiche fossili a quelle rinnovabili). In relazione all’incremento delle disuguaglianze è altrettanto illusorio mettere qua e là qualche piccolo cerotto: si impone una sua trasformazione profonda e interna. Produzione, distribuzione, consumo, crescita vanno rivisitati con coraggio e lungimiranza. Ne va della perseguibilità dell’obiettivo della sostenibilità, da tutti ritenuto irrinunciabile ma perlopiù disatteso. Ne va del nostro futuro.
Giuseppe Zois