Incontro con Meinrado Robbiani, protagonista per lunghe stagioni come segretario dell’Organizzazione cristiano sociale ticinese e Consigliere nazionale a Berna.
Stando nel campo di riferimento dell’OCST, già Pio XI (1857-1939) nel lontano 18 dicembre 1927 affermò che il campo della politica abbraccia «gli interessi di tutte le società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica… Tutti i cristiani sono obbligati ad impegnarsi politicamente. La politica è la forma più alta di carità, seconda sola alla carità religiosa verso Dio». È un’indicazione fondamentale alla quale si sono richiamati Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e l’attuale Papa. La politica in questo primo quarto del XXI secolo sta conoscendo in generale non pochi travagli, confrontata con la frammentarietà, il distacco e l’assenteismo, la crisi di valori e identità. Aggiungiamoci fattori sempre più presenti e talora anche inquietanti come estremismi, sovranismi, sbrigatività, inclinazioni verso esercizio del potere dall’alto e senza mediazione, decisionismo di tipo muscolare, miscela tra potere, plutocrazia, comunicazione (vedere alla voce Stati Uniti d’America del secondo mandato di Donald Trump)…
Meinrado Robbiani, tu sei stato nel mondo del lavoro con la responsabilità di guidare l’OCST e sei stato nelle stanze del potere centrale, al Consiglio Nazionale. La politica rimane (o dovrebbe rimanere) comunque un’interlocutrice primaria ancor più per la classe lavoratrice. Al nuovo tavolo come si va?
Sullo sfondo: la preoccupante indifferenza di una aumentata quota della cittadinanza verso la politica; l’inaridimento delle grandi visioni ideologiche che alimentavano in passato passione e confronto; la minore identificazione nei partiti, peraltro investiti da una realtà in rapida e radicale evoluzione. Su questa tendenza viene a calare il ruolo, sovente destabilizzante, delle reti sociali. Favoriscono la composizione di gruppi omogenei e non comunicanti, dove ognuno è confortato nelle sue posizioni senza lo sforzo del confronto. Si riducono anche sovente a veicoli di sfogo istintivo e astioso. Questo contesto induce le forze politiche a puntare sull’immagine, sulle emozioni e sulla spettacolarizzazione nell’intento di mantenere la presa su un elettorato meno motivato e partecipe. Primeggiano in questo le forze di stampo populista, che sono abili nello sventolare ricette semplici e illusoriamente rassicuranti e che additano comodi capri espiatori (soprattutto gli stranieri) o enfatizzano il ripiegamento difensivo. Viene in tal modo incrinata la propensione alla fatica del compromesso quale sbocco di un confronto tra tesi diverse. E prevale la polarizzazione delle posizioni e dei partiti. Occorre contrapporvi un impegno di rigenerazione della dialettica. Obiettivo che richiede a sua volta un ricupero di pensiero e di cultura politica. Sono le condizioni affinché la politica sia spazio di preparazione del futuro; sede per progetti carichi di umanesimo e solidarietà.
Senso di impotenza in percezione diffusa
Guardando da lontano, in termini di comunità come la mettiamo?
Il tessuto sociale si presenta sfibrato. Già il passaggio ad una società postindustriale ne aveva sconvolto l’assetto, emarginando la classe operaia e irretendo anche le fasce medie in una vischiosa condizione di insicurezza. La contemporanea affermazione dell’individualismo aveva sì liberato i singoli da condizionamenti calcificati, ma li lasciava più isolati e sguarniti. Conquistavano maggiore autonomia e autodeterminazione ma, allentando il legame con i collanti identitari tradizionali (classi sociali, partiti, sindacati, istituzioni religiose ed anche le grandi ideologie), si ritrovavano maggiormente in balìa dei cambiamenti del momento. L’evoluzione più recente suscita inoltre nel corpo sociale sentimenti di corrosiva impotenza di fronte all’elevata complessità e irruenza delle ulteriori trasformazioni che gli piombano addosso. Le tensioni internazionali, le inquietanti prospettive climatiche, il balzo innanzi della potenza tecnologica vengono ad aggiungersi a fattori preesistenti di inquietudine, dilatandone ancor più l’irradiazione. Sono perciò date le premesse:
- perché il presente trasudi smarrimento e insicurezza;
- perché si diffondano pozze di frustrazione;
- perché il futuro si presenti carico di apprensione e di ansia piuttosto che traguardo di propulsioni ambiziose capaci di mobilitare la collettività.
È particolarmente indicativa la sensazione, particolarmente diffusa nella popolazione, che ad attendere i nostri figli e nipoti sia un contesto ben più ispido e ostile di quello nel quale si sono mosse le ultime generazioni. D’altra parte è però vero che proprio nelle fasi di passaggio occorre rianimare la voglia di futuro; che occorre dare corpo a visioni umaniste, investendovi le migliori risorse etiche e sociali.
Le due facce della nuova medaglia
Abbiamo celebrato l’«io» a scapito del «noi» e ora ci accorgiamo che ci stiamo impoverendo nell’esperienza del contatto. Quali segnali hai colto?
L’affermazione dell’individualismo (tratto saliente delle trasformazioni avvenute nell’ultimo mezzo secolo) ha consentito una positiva conquista di autonomia e di autodeterminazione dei singoli. Piuttosto che essere un trampolino solido, sul quale appoggiarsi per aprirsi agli altri, troppo spesso porta a chiudersi in sé stessi, anche per le pressioni di una realtà in rapida trasformazione. Non è perciò superfluo rispolverare un’affermazione di Rousseau: “Il nostro vero io non è mai interamente in noi”. È un richiamo che ci può rimandare al concetto odierno – sovente invocato ma molto disatteso – di interdipendenza. Ognuno si muove in una rete di relazioni e di dipendenze dagli altri, verso la quale è debitore. Questo dovrebbe indurre ad avvertire maggiormente l’appartenenza ad una unica famiglia umana e la percezione del comune destino di tutta l’umanità. La pandemia, che ce ne ha imposto la constatazione, non sembra purtroppo avere insegnato granché. Una interdipendenza che si estende poi anche alla natura, ampiamente ridotta a materia da sfruttare e depredare piuttosto che a risorsa da utilizzare con attenzione alla sua rigenerazione. Ci attende perciò un indispensabile ricupero di pensiero; un investimento culturale, che contribuisca a scegliere una direzione di marcia indirizzata verso un futuro di autentico sviluppo umano.
La macchina unita alla creatività umana
Visto dall’esterno e non più dal tavolo del sindacato, che diagnosi fai del lavoro, oggi, e verso quali sbocchi si va?
Il lavoro è tuttora sotto pressione, esposto a insidie disgreganti. La sua frammentazione, la flessibilità organizzativa delle imprese, i condizionamenti di un contesto economico molto competitivo lo ostruiscono nella sua aspirazione ad un corretto riconoscimento. Il suo peso sociale è oltretutto riconducibile più ai disagi che derivano dalle sue afflizioni piuttosto che – diversamente dal passato – ad una sua forte potenza di traino. La capacità di fungere da crocevia della questione sociale si ritrova oggi inibita. Dopo un quarantennio di oscuramento dovuto alle trasformazioni radicali che lo hanno scombussolato, mi pare tuttavia di potere intravedere la possibilità di una fase nuova e di un ricupero di peso. Non mancano pericoli e insidie. Il lavoro può tuttavia contrapporvi rinvigoriti punti di forza.
Ad esempio, quali? E come?
Innanzitutto il suo allineamento con il concetto di sostenibilità. Il telaio etico del lavoro combacia in ampia misura con quello della sostenibilità, potendone costituire un propulsore decisivo. Il lavoro riemerge anche quale fulcro insostituibile di competitività. La tecnologia dà i suoi frutti migliori quando va a integrarsi e ad amplificare le doti di creatività dei lavoratori e delle lavoratrici. Ad essergli favorevole è pure la situazione demografica. La compressione della popolazione attiva lo rende più raro e prezioso. Se riconosciuto e valorizzato nel suo ricco patrimonio, il lavoro può costituire un fattore basilare di sviluppo:
- in un rapporto molto più equilibrato e complementare con la tecnologia;
- fornendo un apporto ben più prezioso delle sole dinamiche del mercato.
Questa traiettoria però è tutt’altro che scontata. Da qui il ruolo decisivo delle forze che lo rappresentano, sulle quali ricade il compito di riportare il lavoro in prima linea.
Giuseppe Zois
Prima parte dell’intervista: Se la crescita si inceppa ne risentirà purtroppo l’intera popolazione.
Meinrado Robbiani
Nato nel 1951, Meinrado Robbiani è sposato con Denise e padre di due figli. Risiede a Magliaso. Dopo la licenza in scienze politiche all’Università e all’Institut de Hautes Etudes Internationales di Ginevra è entrato nell’OCST. Nel 1987 è stato nominato Segretario cantonale, carica ricoperta fino al pensionamento nel 2016. Dal 1999 al 2011 è stato parlamentare a Berna in Consiglio nazionale, dove ha fatto parte della Commissione della sicurezza sociale e della salute pubblica. In ambito nazionale è pure stato vice-presidente dell’organizzazione sindacale Travail.Suisse.