L’odio (L’orma editore 2024) di Heinrich Mann racconta di come il nazismo abbia degradato l’intelligenza e analizza per filo e per segno come il totalitarismo si sia impadronito della Germania. Mann parte dall’inizio del Secondo impero nel 1871 e spiega come questo sia sempre stato in preparazione alla guerra. Con l’arrivo del nazionalsocialismo, ragione e onestà hanno toccato il punto più basso della storia tedesca. E sì che la libertà era parte integrante del Secondo Reich sin dalla sua fondazione. Col tempo, i socialdemocratici smisero di denunciare le verità in cambio di vantaggi immediati e ottennero una legislazione sociale che desideravano. Un nuovo orientamento di spirito si sviluppò nel 1900, quando le masse mutarono di mentalità. La Repubblica del 1918 nacque in un periodo irrazionale, ricorda Mann. Dopo la guerra ai tedeschi bastava che la nazione fosse rimasta in piedi. E così fu.
Ma la repubblica non poteva limitarsi ad essere un’imitazione tardiva delle democrazie occidentali. Doveva anzitutto anticipare il proprio tempo, commenta l’autore. Molti partiti nel paese avevano trascorso decenni a pretendere dei progressi, scrive l’autore. Ma quando è arrivato il momento non è successo nulla. Mann riconosce alla Repubblica di Weimar delle buone intenzioni. Tuttavia, gli stimoli incoerenti e lo spirito del tempo non riuscirono ad unificarsi. Nel complesso, Heinrich Mann giudica positivamente il lavoro del cancelliere Gustav Stresemann anche se la nazione non lo sosteneva e i partiti lo tolleravano a malapena. La Repubblica di Weimar aveva le sue note falle. Il sistema di governo era vecchio e la magistratura non era mai stata repubblicana. Nessuna area dell’amministrazione pubblica era permeata dal repubblicanesimo e men che meno lo erano i ministeri pieni di controrivoluzionari. «La democrazia concede a tutti i diritti anche a coloro che vogliono eliminarla», spiega Mann.
«I repubblicani non si sono mai sentiti al sicuro nel loro stesso stato». Uno stato «del tutto inesperto ha generato una serie di personaggi e fenomeni degni delle più scellerate democrazie antiche […]. Dove tutti condividono la stessa mentalità, alla lunga vince il fracasso». E infatti vinse il nazionalsocialismo. «Il razionalismo ha prevalso senza sforzo, mentre la ragione non trionfa mai da sola […] bisogna lottare per ottenerla». D’altra parte, «la sconfitta dell’irrazionalismo […] non è garanzia di nulla». «Il nazionalismo al suo stadio finale è un restringimento e una riduzione della possibilità di vivere e vedere il mondo». Esso «si pone al di sopra del capitalismo avanzato e del militarismo». E «nel suo sviluppo è diventato l’orrore […]. Fu un’invenzione francese […]. La Rivoluzione francese era diretta contro la monarchia […]. Era sì nazionalista, ma non odiava alcun popolo, al contrario, li amava tutti».
Certo, Friedrich Schiller era un simpatizzante della Rivoluzione. Tuttavia, il nazionalismo moderno era diverso. «non combatteva più il re, ma serviva ai governanti per aizzare i popoli gli uni contro gli altri». «Il libero pensiero non ha spazio in uno stato nazionale chiuso nei propri confini che ha elevato se stesso a proprio unico fine». Inoltre, il tardivo stato nazionale tedesco non è mai stato all’altezza dei suoi ideali. «I tedeschi hanno sempre avuto difficoltà a capire se stessi. Da qui, la loro incessante preoccupazione per la questione nazionale». Con l’arrivo del nazismo la ragione è diventata il nemico. D’altronde, i nazisti stessi dicevano che la loro forza di rivoluzione era proprio l’odio. «L’odio non solo come mezzo, ma come unica ragion d’essere di un potente sommovimento popolare». Questa la grande invenzione di Adolf Hitler. «Mai prima d’ora si era visto un popolo tanto pieno d’odio verso i propri connazionali».
Heinrich Mann sbeffeggia il Führer e le sue elucubrazioni sul marxismo e l’ebraismo. «Nelle menti più ottuse il marxismo e l’ebraismo si fusero, sicché l’atavica ostilità nei confronti degli ebrei trovò una nuova ragion d’essere». Mann si avventura poi in un ritratto di Joseph Goebbels. Che «non si era scordato delle sue disfatte letterarie e per questo metteva alla pubblica gogna gli scrittori più dotati […]. I passati insuccessi e una malformazione al piede che lo affliggeva fin dalla nascita avevano alimentato a lungo il suo desiderio di vendetta contro il mondo e ora era in grado di infonderlo anche negli altri. Era questo il suo più grande talento. Trasudava odio». Molti lo capirono, altri no. Molti repubblicani facevano fatica a cogliere il significato dell’odio di cui erano bersaglio.
«La Repubblica, troppo indulgente, divenne presto debole e così si lasciò andare si arrese». I nazisti s’impadronirono del potere e instaurarono una dittatura che voleva spezzare lo spirito. «Quando l’odio raggiunge il parossismo e non ha più valvole di sfogo si tramuta in paura». Un altro capitolo del volume tratta il “grande uomo”. Che però è austriaco e sempre lo sarà, sbeffeggia Mann, nel paese di Federico il Grande e Otto von Bismarck. Hitler era portatore della eredità del dispotismo che aveva tracce profonde nei sudditi degli Asburgo. Artista fallito, Hitler intraprese la carriera di dittatore. Heinrich Mann spiega che ebbe gioco facile visto che nessuno ebbe l’astuzia di incanalare la sua volontà del sistema repubblicano. Hitler era disposto a fare qualsiasi cosa dal momento che ogni porta gli era stata chiusa in faccia. Disoccupato nato, non amava lavorare. La guerra gli aveva tolto quella poca residua voglia di lavorare.
«La Germania non aveva mai conosciuto nulla di simile: […] mai una polizia che entrasse nelle vite private delle persone. Le persecuzioni non erano affatto comuni tra i tedeschi […]. Lo stato tedesco era severo, certo […], ma non aveva mai fatto deliberatamente il ricorso all’odio alla crudeltà questo era uno specifico degli Asburgo! Erano loro ad aver messo […] gli ungheresi contro gli slavi e gli italiani e così il grande uomo, impeccabile epigono dei propri avi, fece la stessa cosa con i parenti tedeschi […]. L’odio razziale come strumento di governo era sconosciuto nel paese del libero pensatore Federico II e di Bismarck […]. L’antisemitismo era sempre stato considerato una cosa ignobile, di cui vergognarsi. Il grande uomo invece l’ha legittimato […]. La nostra nazione non era mai caduta così in basso». Per tenere unito il paese Hitler usava il nazionalismo e la minaccia della guerra.
Si trattava del bisogno di vendetta che andava sfogato all’interno e all’esterno della Germania. Apparso nel momento giusto, il grande uomo «ha ottenuto la sua grandezza da una nazione che oramai non vedeva e non sentiva nessun altro che lui». Nel capitolo “Nel Reich di falliti”, Mann delinea un impero autoritario, contraddistinto dalla miscela di paura ed ipocrisia. Dove una minoranza è salita al potere e le masse sono ipnotizzate dalla propaganda e il sentimento predominante a livello popolare era il disprezzo. Heinrich Mann accusa quella parte di popolo che si è piegata al nazismo. Tra odio e avidità avvelenò lo stato e le relazioni sociali con sentimento di vendetta per le sofferenze passate. Arrampicatori sociali gretti sfigurati dall’isteria. «Lo stato razziale altro non è che la selezione dei peggiori». Poi un capitolo sull’antisemitismo. Secondo Mann la persecuzione della minoranza ebraica finì per danneggiare soprattutto i tedeschi stessi.
Nei territori orientali del paese non ha senso di parlare di nazione e ancor meno di razza. Soprattutto l’Est, il cuore della Prussia era popolato da discendenti di tribù slave dove non si parlava neanche il tedesco. E invece fu proprio questa l’efficienza del nuovo razzismo di Hitler. L’antisemitismo non è nato nella culla della cultura tedesca, ma è stato importato ed è fiorito nelle province che un tempo erano colonie interne. «La cosa più triste della storia tedesca contemporanea è che sarebbe potuta andare anche in modo diverso […]. In Germania il fronte repubblicano era molto ampio il governo era sostenuto da una vasta maggioranza che avrebbe dovuto reagire con forza alle brutalità naziste. I repubblicani, invece, rimasero prigionieri del proprio stesso principio di legalità. Un esempio è l’opportunismo di Franz von Papen che ebbe una perniciosa influenza sul presidente Paul von Hindenburg.
La Germania sotto Hitler divenne un paese governato dalla legge del più forte. La dittatura «si comprende solo in funzione alla guerra e conflitti interni al paese sono già una prima minaccia alla pace mondiale». Lo stesso razziale aveva abolito la libertà. Il regime non disponeva di menti eccelse in ambito di attività intellettuale. Aveva a disposizione, come li chiama Heinrich Mann, alcuni cervellini utili nella massa di mediocri. La Germania nazionalsocialista era governata da un manipolo di uomini sull’orlo del fallimento. «La sanguinosa infamia che ha macchiato il paese era del tutto evitabile sarebbe bastato opporsi con serietà». Alcuni industriali e politici avevano creduto di poter utilizzare Hitler per schiavizzare i lavoratori tedeschi. Una scommessa miope. «La dottrina della razza resta uno strumento formidabile al servizio di ogni piano di dominazione: prima scatta la violenza interna poi si passa alla conquista del mondo».
Amedeo Gasparini
L’odio (L’orma editore 2024) di Heinrich Mann racconta di come il nazismo abbia degradato l’intelligenza e analizza per filo e per segno come il totalitarismo si sia impadronito della Germania. Mann parte dall’inizio del Secondo impero nel 1871 e spiega come questo sia sempre stato in preparazione alla guerra. Con l’arrivo del nazionalsocialismo, ragione e onestà hanno toccato il punto più basso della storia tedesca. E sì che la libertà era parte integrante del Secondo Reich sin dalla sua fondazione. Col tempo, i socialdemocratici smisero di denunciare le verità in cambio di vantaggi immediati e ottennero una legislazione sociale che desideravano. Un nuovo orientamento di spirito si sviluppò nel 1900, quando le masse mutarono di mentalità. La Repubblica del 1918 nacque in un periodo irrazionale, ricorda Mann. Dopo la guerra ai tedeschi bastava che la nazione fosse rimasta in piedi. E così fu.
Ma la repubblica non poteva limitarsi ad essere un’imitazione tardiva delle democrazie occidentali. Doveva anzitutto anticipare il proprio tempo, commenta l’autore. Molti partiti nel paese avevano trascorso decenni a pretendere dei progressi, scrive l’autore. Ma quando è arrivato il momento non è successo nulla. Mann riconosce alla Repubblica di Weimar delle buone intenzioni. Tuttavia, gli stimoli incoerenti e lo spirito del tempo non riuscirono ad unificarsi. Nel complesso, Heinrich Mann giudica positivamente il lavoro del cancelliere Gustav Stresemann anche se la nazione non lo sosteneva e i partiti lo tolleravano a malapena. La Repubblica di Weimar aveva le sue note falle. Il sistema di governo era vecchio e la magistratura non era mai stata repubblicana. Nessuna area dell’amministrazione pubblica era permeata dal repubblicanesimo e men che meno lo erano i ministeri pieni di controrivoluzionari. «La democrazia concede a tutti i diritti anche a coloro che vogliono eliminarla», spiega Mann.
«I repubblicani non si sono mai sentiti al sicuro nel loro stesso stato». Uno stato «del tutto inesperto ha generato una serie di personaggi e fenomeni degni delle più scellerate democrazie antiche […]. Dove tutti condividono la stessa mentalità, alla lunga vince il fracasso». E infatti vinse il nazionalsocialismo. «Il razionalismo ha prevalso senza sforzo, mentre la ragione non trionfa mai da sola […] bisogna lottare per ottenerla». D’altra parte, «la sconfitta dell’irrazionalismo […] non è garanzia di nulla». «Il nazionalismo al suo stadio finale è un restringimento e una riduzione della possibilità di vivere e vedere il mondo». Esso «si pone al di sopra del capitalismo avanzato e del militarismo». E «nel suo sviluppo è diventato l’orrore […]. Fu un’invenzione francese […]. La Rivoluzione francese era diretta contro la monarchia […]. Era sì nazionalista, ma non odiava alcun popolo, al contrario, li amava tutti».
Certo, Friedrich Schiller era un simpatizzante della Rivoluzione. Tuttavia, il nazionalismo moderno era diverso. «non combatteva più il re, ma serviva ai governanti per aizzare i popoli gli uni contro gli altri». «Il libero pensiero non ha spazio in uno stato nazionale chiuso nei propri confini che ha elevato se stesso a proprio unico fine». Inoltre, il tardivo stato nazionale tedesco non è mai stato all’altezza dei suoi ideali. «I tedeschi hanno sempre avuto difficoltà a capire se stessi. Da qui, la loro incessante preoccupazione per la questione nazionale». Con l’arrivo del nazismo la ragione è diventata il nemico. D’altronde, i nazisti stessi dicevano che la loro forza di rivoluzione era proprio l’odio. «L’odio non solo come mezzo, ma come unica ragion d’essere di un potente sommovimento popolare». Questa la grande invenzione di Adolf Hitler. «Mai prima d’ora si era visto un popolo tanto pieno d’odio verso i propri connazionali».
Heinrich Mann sbeffeggia il Führer e le sue elucubrazioni sul marxismo e l’ebraismo. «Nelle menti più ottuse il marxismo e l’ebraismo si fusero, sicché l’atavica ostilità nei confronti degli ebrei trovò una nuova ragion d’essere». Mann si avventura poi in un ritratto di Joseph Goebbels. Che «non si era scordato delle sue disfatte letterarie e per questo metteva alla pubblica gogna gli scrittori più dotati […]. I passati insuccessi e una malformazione al piede che lo affliggeva fin dalla nascita avevano alimentato a lungo il suo desiderio di vendetta contro il mondo e ora era in grado di infonderlo anche negli altri. Era questo il suo più grande talento. Trasudava odio». Molti lo capirono, altri no. Molti repubblicani facevano fatica a cogliere il significato dell’odio di cui erano bersaglio.
«La Repubblica, troppo indulgente, divenne presto debole e così si lasciò andare si arrese». I nazisti s’impadronirono del potere e instaurarono una dittatura che voleva spezzare lo spirito. «Quando l’odio raggiunge il parossismo e non ha più valvole di sfogo si tramuta in paura». Un altro capitolo del volume tratta il “grande uomo”. Che però è austriaco e sempre lo sarà, sbeffeggia Mann, nel paese di Federico il Grande e Otto von Bismarck. Hitler era portatore della eredità del dispotismo che aveva tracce profonde nei sudditi degli Asburgo. Artista fallito, Hitler intraprese la carriera di dittatore. Heinrich Mann spiega che ebbe gioco facile visto che nessuno ebbe l’astuzia di incanalare la sua volontà del sistema repubblicano. Hitler era disposto a fare qualsiasi cosa dal momento che ogni porta gli era stata chiusa in faccia. Disoccupato nato, non amava lavorare. La guerra gli aveva tolto quella poca residua voglia di lavorare.
«La Germania non aveva mai conosciuto nulla di simile: […] mai una polizia che entrasse nelle vite private delle persone. Le persecuzioni non erano affatto comuni tra i tedeschi […]. Lo stato tedesco era severo, certo […], ma non aveva mai fatto deliberatamente il ricorso all’odio alla crudeltà questo era uno specifico degli Asburgo! Erano loro ad aver messo […] gli ungheresi contro gli slavi e gli italiani e così il grande uomo, impeccabile epigono dei propri avi, fece la stessa cosa con i parenti tedeschi […]. L’odio razziale come strumento di governo era sconosciuto nel paese del libero pensatore Federico II e di Bismarck […]. L’antisemitismo era sempre stato considerato una cosa ignobile, di cui vergognarsi. Il grande uomo invece l’ha legittimato […]. La nostra nazione non era mai caduta così in basso». Per tenere unito il paese Hitler usava il nazionalismo e la minaccia della guerra.
Si trattava del bisogno di vendetta che andava sfogato all’interno e all’esterno della Germania. Apparso nel momento giusto, il grande uomo «ha ottenuto la sua grandezza da una nazione che oramai non vedeva e non sentiva nessun altro che lui». Nel capitolo “Nel Reich di falliti”, Mann delinea un impero autoritario, contraddistinto dalla miscela di paura ed ipocrisia. Dove una minoranza è salita al potere e le masse sono ipnotizzate dalla propaganda e il sentimento predominante a livello popolare era il disprezzo. Heinrich Mann accusa quella parte di popolo che si è piegata al nazismo. Tra odio e avidità avvelenò lo stato e le relazioni sociali con sentimento di vendetta per le sofferenze passate. Arrampicatori sociali gretti sfigurati dall’isteria. «Lo stato razziale altro non è che la selezione dei peggiori». Poi un capitolo sull’antisemitismo. Secondo Mann la persecuzione della minoranza ebraica finì per danneggiare soprattutto i tedeschi stessi.
Nei territori orientali del paese non ha senso di parlare di nazione e ancor meno di razza. Soprattutto l’Est, il cuore della Prussia era popolato da discendenti di tribù slave dove non si parlava neanche il tedesco. E invece fu proprio questa l’efficienza del nuovo razzismo di Hitler. L’antisemitismo non è nato nella culla della cultura tedesca, ma è stato importato ed è fiorito nelle province che un tempo erano colonie interne. «La cosa più triste della storia tedesca contemporanea è che sarebbe potuta andare anche in modo diverso […]. In Germania il fronte repubblicano era molto ampio il governo era sostenuto da una vasta maggioranza che avrebbe dovuto reagire con forza alle brutalità naziste. I repubblicani, invece, rimasero prigionieri del proprio stesso principio di legalità. Un esempio è l’opportunismo di Franz von Papen che ebbe una perniciosa influenza sul presidente Paul von Hindenburg.
La Germania sotto Hitler divenne un paese governato dalla legge del più forte. La dittatura «si comprende solo in funzione alla guerra e conflitti interni al paese sono già una prima minaccia alla pace mondiale». Lo stesso razziale aveva abolito la libertà. Il regime non disponeva di menti eccelse in ambito di attività intellettuale. Aveva a disposizione, come li chiama Heinrich Mann, alcuni cervellini utili nella massa di mediocri. La Germania nazionalsocialista era governata da un manipolo di uomini sull’orlo del fallimento. «La sanguinosa infamia che ha macchiato il paese era del tutto evitabile sarebbe bastato opporsi con serietà». Alcuni industriali e politici avevano creduto di poter utilizzare Hitler per schiavizzare i lavoratori tedeschi. Una scommessa miope. «La dottrina della razza resta uno strumento formidabile al servizio di ogni piano di dominazione: prima scatta la violenza interna poi si passa alla conquista del mondo».
Amedeo Gasparini