Craxi. L’ultimo vero politico (Rizzoli 2025) di Aldo Cazzullo si presenta come una biografia ricca di immagini, ma essenziale nella narrativa, suscitando qualche dubbio sulla possibile tendenza agiografica. Il racconto inizia dall’ottobre 1999, quando il giornalista raggiunge Tunisi in concomitanza con la notizia del ricovero di Bettino Craxi. Il leader socialista, rifugiatosi ad Hammamet nel 1994 per evitare le conseguenze di Mani Pulite, sarebbe scomparso pochi mesi dopo. Il libro dipinge un ritratto sfaccettato di chi ha incarnato la modernizzazione dell’Italia, esplorando le relazioni con i leader nazionali e internazionali, oltre alla dimensione personale. Craxi è una figura controversa. Per alcuni un illustre esiliato, per altri (e la giustizia) un latitante. Un uomo di Stato con visione politica che ha pagato la propria spregiudicatezza. Cazzullo ammette di essere stato tra coloro che non apprezzavano Craxi. Molti lo osteggiavano per la sua arroganza, che i suoi intimi spacciavano per timidezza.
I giornalisti lo contattavano occasionalmente ad Hammamet per dei commenti. Dal suo “esilio” tunisino il leader si mostrava molto cordiale. Quando si manifestarono i suoi problemi di salute, Antonio Di Pietro parlò di un “foruncolo”, contribuendo a minimizzare la gravità. Il premier Massimo D’Alema e il procuratore capo di Milano Gerardo D’Ambrosio, successore di Francesco Saverio Borrelli, si erano dichiarati disponibili al suo rientro in Italia. Di Pietro fu categorico: «Se Craxi torna in Italia deve essere arrestato, i benefici si concedono ai detenuti, non ai latitante». Craxi era determinato a rientrare in Italia solo da uomo libero. Dopo la morte dell’amico François Mitterrand, il nuovo scenario politico francese – con Jacques Chirac e Lionel Jospin concentrati su altre priorità – aveva complicato la sua situazione. Si erano vagliate diverse alternative, tra cui la richiesta di un passaporto ONU o un aiuto americano, ma Craxi diffidava di Bill Clinton.
Quando l’amico di vecchia data Silvio Berlusconi si rivolse al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi per chiedere la grazia, la famiglia Craxi non apprezzò l’iniziativa. Nato a Milano il 24 febbraio 1934 da una famiglia siciliana di giuristi e tradizione antifascista, Craxi mantenne sempre interesse per la figura di Benito Mussolini. Con Giorgio Almirante sviluppò un rapporto personale positivo, condividendo il desiderio di una riconciliazione a piazzale Loreto. A diciassette anni si iscrisse segretamente al PSI, sacrificando gli studi universitari per l’impegno politico. Il suo rapporto con Marco Pannella, pur basato sulla stima reciproca, fu spesso caratterizzato da conflitti. A Praga conobbe Carlo Ripa di Meana e, come Pietro Nenni, si schierò con la corrente autonomista. Nel 1968 espresse solidarietà alla Primavera di Praga, criticando il PCI per la sua ambiguità verso l’intervento sovietico.
In quegli anni, mentre la leadership di Francesco De Martino mostrava i suoi limiti nella gestione dei movimenti sociali, il partito attraeva personalità del calibro di Giorgio Strehler, Nino Manfredi, Federico Fellini e Sandra Milo. Come vicepresidente dell’Internazionale socialista, l’11 settembre 1973 rese omaggio alla tomba di Salvador Allende e incontrò Felipe González. Nel frattempo, Aldo Moro lavorava a un’intesa con i comunisti, mentre la Confindustria di Gianni Agnelli considerava un allargamento della maggioranza. In un clima segnato dal terrorismo nero e rosso, nel 1976 De Martino dichiarò che i socialisti non avrebbero più sostenuto governi senza la partecipazione comunista. Il PSI scivolò sotto il dieci per cento e il PCI raggiunse il 34,4 per cento. Investito segretario, al Midas Hotel molti consideravano Craxi erroneamente un candidato debole e transitorio. Decisivo il supporto del giovane dirigente veneziano Gianni De Michelis, che portò con sé i voti della sinistra psi.
Mario Melloni, alias Fortebraccio, lo sottovalutava chiamandolo “Nihil”. Mentre Eugenio Scalfari lo paragonava a Ghino di Tacco. La sua vita privata rivelava un uomo dalle abitudini particolari. Frequentava personaggi come Caterina Caselli e Lucio Dalla, aveva un rapporto difficile con il cibo, consumando pasti abbondanti senza riguardo per il diabete. I suoi ritmi erano irregolari. Pausa dopo pranzo, cena molto tardi, a letto a notte fonda, sveglia tardi. Fumava sigarette al mentolo e vestiva in modo informale, con una predilezione per le cravatte rosse. La sua missione diventò la ricostruzione del centrosinistra. Durante il rapimento Moro, introdusse un nuovo simbolo del partito: il garofano rosso sopra falce, martello e libro, creato dall’artista Filippo Panseca. Craxi stabilì contatti con le BR attraverso ex membri di Potere Operaio, perseguendo sia la salvezza di Moro sia una linea distintiva rispetto a DC e PCI.
La sua posizione favorevole alla trattativa trovava comprensione negli americani e in Giulio Andreotti. Il PCI, dal canto suo, rifiutava di legittimare un’organizzazione armata che si definisse comunista. La morte di Moro segnò la fine del compromesso storico. I comunisti pagarono il prezzo politico della fermezza. Senza il grande mediatore, l’accordo tra DC e PCI crollò. Nel frattempo, Giovanni Leone fu costretto a lasciare la presidenza per lo scandalo Lockheed, nonostante la sua innocenza, sacrificato dalla DC alle pressioni del PCI. Nonostante la preferenza per Antonio Giolitti o Giuliano Vassalli alla presidenza, Craxi dovette accettare Sandro Pertini, sostenuto da Enrico Berlinguer, con cui sviluppò un rapporto franco. Il PSI craxiano si distinse come unico partito di sinistra a sostenere gli euromissili, una scelta strategica che rafforza il suo atlantismo, marcando le distanze dal PCI e consolidando i rapporti con gli USA.
Nel 1983, con la DC di Ciriaco De Mita in calo di due milioni di voti, Craxi pose come condizione per la collaborazione la guida di Palazzo Chigi. Si formò un governo con Arnaldo Forlani vicepresidente, Andreotti agli Esteri, Oscar Luigi Scalfaro agli Interni, Mino Martinazzoli alla Giustizia e Giovanni Spadolini alla Difesa. Il periodo si caratterizzò per riforme e crescita economica. Il “decreto di San Valentino” del 14 febbraio 1984, concordato con CISL e UIL, modificò la scala mobile richiedendo ai lavoratori la rinuncia ad alcuni adeguamenti salariali per contrastare l’inflazione. La morte di Berlinguer e la vittoria nel referendum sulla scala mobile segnarono una vittoria politica sui comunisti. Ma alienarono il sostegno di lavoratori dipendenti e pensionati. Seguirono gli anni dei decreti favorevoli a Berlusconi. La crisi di Sigonella divenne simbolo di orgoglio nazionale. Craxi si dimise nel 1987.
La caduta del Muro di Berlino sembrò inizialmente favorirlo. «Non voglio che neanche un calcinaccio di quel muro mi cada addosso», disse. Ma il 1989 segnò paradossalmente l’inizio del suo declino. Il referendum sulla preferenza unica del 9 giugno 1991, nonostante il suo invito ad “andare al mare”, vide il 95,6 per cento dei votanti a favore del cambiamento. Tangentopoli iniziò il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa. Per Craxi si chiuse la prospettiva di Palazzo Chigi, mentre Giuliano Amato diventò presidente del Consiglio. Il 3 luglio 1992, percependo l’assedio crescente, Craxi tenne un discorso alla Camera che, per quanto efficace, non poteva contrastare il clima nazionale favorevole alle inchieste della magistratura. Il sistema di finanziamento illecito dei partiti era insostenibile, specialmente dopo la caduta del Muro, la dissoluzione dell’URSS, la trasformazione del PCI e gli Stati Uniti che persero interesse nel sostenere la vecchia classe politica.
Nonostante Rino Formica sostenne che «contro Di Pietro Bettino ha un poker d’assi», il primo avviso di garanzia del 15 dicembre 1992 segnò l’inizio della fine politica di Craxi. Il PSI passò nelle mani di Giorgio Benvenuto e poi di Ottaviano Del Turco. Ma nessuno dei due riuscì a salvare il più antico partito italiano. Repubblica suggellò il momento con il titolo: “Addio, Ghino di Tacco”. Il 29 aprile 1993, la Camera negò in votazione segreta quattro autorizzazioni a procedere contro Craxi per corruzione e ricettazione. La sera delle monetine divenne emblematica. Accompagnato da Luca Josi, capo dei giovani craxiani, rifiutò di uscire dal retro nonostante i consigli della scorta. Le grida «Vuoi pure queste, Bettino, vuoi pure queste?!» segnarono un’umiliazione da cui non si riprenderà. Craxi ricevette due condanne: cinque anni e sei mesi per le tangenti Eni-Sai e quattro anni e sei mesi per quelle sulla Metropolitana Milanese.
La sua vicenda giudiziaria non presenta misteri, osserva Cazzullo. La sua colpevolezza, ammessa da lui stesso alla Camera, è inequivocabile. La posizione di Craxi appare ancora oggi più come una rivendicazione che una confessione. Se è vero che non si può assolvere tutti dichiarando una colpevolezza collettiva, è altrettanto innegabile che Craxi abbia pagato anche per altri. La questione se i finanziamenti illeciti servissero solo alla politica o anche al suo arricchimento personale diventa secondaria rispetto alla sua evidente spregiudicatezza. Il 17 dicembre 1993, nell’interrogatorio di Di Pietro sul caso della maxitangente Enimont (centocinquanta miliardi versati da Raul Gardini ai politici per la fallita fusione Montedison-ENI), emerse un contrasto significativo. Mentre con Forlani, segretario DC, Di Pietro venne giudicato aggressivo, con Craxi fu accondiscendente. Ma il leader socialista ricevette in primo grado la condanna più severa tra i politici.
Il 19 gennaio 2000, il funerale di Craxi si trasformò in uno psicodramma, con difficoltà persino nel sistemare il corpo nella bara troppo piccola. La famiglia rifiutò il funerale di Stato offerto da D’Alema. Venne sepolto nel cimitero di Hammamet, con un libro di marmo sulla tomba recante la frase: «La mia libertà equivale alla mia vita». Un dettaglio significativo era la presenza nel suo studio dei busti sia di Giuseppe Garibaldi che di Mussolini, fatto che all’epoca non suscitò scandalo. Scalfari riconobbe in morte: «L’uomo ha avuto la grandezza della fine». Cazzullo conclude con amare riflessioni. Definisce Craxi “l’ultimo vero politico” poiché con lui, più che con Moro, muore la Prima Repubblica. La sfiducia degli italiani nella politica riflette la loro incapacità di credere nello Stato e di concepire l’azione politica come servizio per il bene comune, rivelando un rapporto immaturo con il potere.
Amedeo Gasparini
Craxi. L’ultimo vero politico (Rizzoli 2025) di Aldo Cazzullo si presenta come una biografia ricca di immagini, ma essenziale nella narrativa, suscitando qualche dubbio sulla possibile tendenza agiografica. Il racconto inizia dall’ottobre 1999, quando il giornalista raggiunge Tunisi in concomitanza con la notizia del ricovero di Bettino Craxi. Il leader socialista, rifugiatosi ad Hammamet nel 1994 per evitare le conseguenze di Mani Pulite, sarebbe scomparso pochi mesi dopo. Il libro dipinge un ritratto sfaccettato di chi ha incarnato la modernizzazione dell’Italia, esplorando le relazioni con i leader nazionali e internazionali, oltre alla dimensione personale. Craxi è una figura controversa. Per alcuni un illustre esiliato, per altri (e la giustizia) un latitante. Un uomo di Stato con visione politica che ha pagato la propria spregiudicatezza. Cazzullo ammette di essere stato tra coloro che non apprezzavano Craxi. Molti lo osteggiavano per la sua arroganza, che i suoi intimi spacciavano per timidezza.
I giornalisti lo contattavano occasionalmente ad Hammamet per dei commenti. Dal suo “esilio” tunisino il leader si mostrava molto cordiale. Quando si manifestarono i suoi problemi di salute, Antonio Di Pietro parlò di un “foruncolo”, contribuendo a minimizzare la gravità. Il premier Massimo D’Alema e il procuratore capo di Milano Gerardo D’Ambrosio, successore di Francesco Saverio Borrelli, si erano dichiarati disponibili al suo rientro in Italia. Di Pietro fu categorico: «Se Craxi torna in Italia deve essere arrestato, i benefici si concedono ai detenuti, non ai latitante». Craxi era determinato a rientrare in Italia solo da uomo libero. Dopo la morte dell’amico François Mitterrand, il nuovo scenario politico francese – con Jacques Chirac e Lionel Jospin concentrati su altre priorità – aveva complicato la sua situazione. Si erano vagliate diverse alternative, tra cui la richiesta di un passaporto ONU o un aiuto americano, ma Craxi diffidava di Bill Clinton.
Quando l’amico di vecchia data Silvio Berlusconi si rivolse al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi per chiedere la grazia, la famiglia Craxi non apprezzò l’iniziativa. Nato a Milano il 24 febbraio 1934 da una famiglia siciliana di giuristi e tradizione antifascista, Craxi mantenne sempre interesse per la figura di Benito Mussolini. Con Giorgio Almirante sviluppò un rapporto personale positivo, condividendo il desiderio di una riconciliazione a piazzale Loreto. A diciassette anni si iscrisse segretamente al PSI, sacrificando gli studi universitari per l’impegno politico. Il suo rapporto con Marco Pannella, pur basato sulla stima reciproca, fu spesso caratterizzato da conflitti. A Praga conobbe Carlo Ripa di Meana e, come Pietro Nenni, si schierò con la corrente autonomista. Nel 1968 espresse solidarietà alla Primavera di Praga, criticando il PCI per la sua ambiguità verso l’intervento sovietico.
In quegli anni, mentre la leadership di Francesco De Martino mostrava i suoi limiti nella gestione dei movimenti sociali, il partito attraeva personalità del calibro di Giorgio Strehler, Nino Manfredi, Federico Fellini e Sandra Milo. Come vicepresidente dell’Internazionale socialista, l’11 settembre 1973 rese omaggio alla tomba di Salvador Allende e incontrò Felipe González. Nel frattempo, Aldo Moro lavorava a un’intesa con i comunisti, mentre la Confindustria di Gianni Agnelli considerava un allargamento della maggioranza. In un clima segnato dal terrorismo nero e rosso, nel 1976 De Martino dichiarò che i socialisti non avrebbero più sostenuto governi senza la partecipazione comunista. Il PSI scivolò sotto il dieci per cento e il PCI raggiunse il 34,4 per cento. Investito segretario, al Midas Hotel molti consideravano Craxi erroneamente un candidato debole e transitorio. Decisivo il supporto del giovane dirigente veneziano Gianni De Michelis, che portò con sé i voti della sinistra psi.
Mario Melloni, alias Fortebraccio, lo sottovalutava chiamandolo “Nihil”. Mentre Eugenio Scalfari lo paragonava a Ghino di Tacco. La sua vita privata rivelava un uomo dalle abitudini particolari. Frequentava personaggi come Caterina Caselli e Lucio Dalla, aveva un rapporto difficile con il cibo, consumando pasti abbondanti senza riguardo per il diabete. I suoi ritmi erano irregolari. Pausa dopo pranzo, cena molto tardi, a letto a notte fonda, sveglia tardi. Fumava sigarette al mentolo e vestiva in modo informale, con una predilezione per le cravatte rosse. La sua missione diventò la ricostruzione del centrosinistra. Durante il rapimento Moro, introdusse un nuovo simbolo del partito: il garofano rosso sopra falce, martello e libro, creato dall’artista Filippo Panseca. Craxi stabilì contatti con le BR attraverso ex membri di Potere Operaio, perseguendo sia la salvezza di Moro sia una linea distintiva rispetto a DC e PCI.
La sua posizione favorevole alla trattativa trovava comprensione negli americani e in Giulio Andreotti. Il PCI, dal canto suo, rifiutava di legittimare un’organizzazione armata che si definisse comunista. La morte di Moro segnò la fine del compromesso storico. I comunisti pagarono il prezzo politico della fermezza. Senza il grande mediatore, l’accordo tra DC e PCI crollò. Nel frattempo, Giovanni Leone fu costretto a lasciare la presidenza per lo scandalo Lockheed, nonostante la sua innocenza, sacrificato dalla DC alle pressioni del PCI. Nonostante la preferenza per Antonio Giolitti o Giuliano Vassalli alla presidenza, Craxi dovette accettare Sandro Pertini, sostenuto da Enrico Berlinguer, con cui sviluppò un rapporto franco. Il PSI craxiano si distinse come unico partito di sinistra a sostenere gli euromissili, una scelta strategica che rafforza il suo atlantismo, marcando le distanze dal PCI e consolidando i rapporti con gli USA.
Nel 1983, con la DC di Ciriaco De Mita in calo di due milioni di voti, Craxi pose come condizione per la collaborazione la guida di Palazzo Chigi. Si formò un governo con Arnaldo Forlani vicepresidente, Andreotti agli Esteri, Oscar Luigi Scalfaro agli Interni, Mino Martinazzoli alla Giustizia e Giovanni Spadolini alla Difesa. Il periodo si caratterizzò per riforme e crescita economica. Il “decreto di San Valentino” del 14 febbraio 1984, concordato con CISL e UIL, modificò la scala mobile richiedendo ai lavoratori la rinuncia ad alcuni adeguamenti salariali per contrastare l’inflazione. La morte di Berlinguer e la vittoria nel referendum sulla scala mobile segnarono una vittoria politica sui comunisti. Ma alienarono il sostegno di lavoratori dipendenti e pensionati. Seguirono gli anni dei decreti favorevoli a Berlusconi. La crisi di Sigonella divenne simbolo di orgoglio nazionale. Craxi si dimise nel 1987.
La caduta del Muro di Berlino sembrò inizialmente favorirlo. «Non voglio che neanche un calcinaccio di quel muro mi cada addosso», disse. Ma il 1989 segnò paradossalmente l’inizio del suo declino. Il referendum sulla preferenza unica del 9 giugno 1991, nonostante il suo invito ad “andare al mare”, vide il 95,6 per cento dei votanti a favore del cambiamento. Tangentopoli iniziò il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa. Per Craxi si chiuse la prospettiva di Palazzo Chigi, mentre Giuliano Amato diventò presidente del Consiglio. Il 3 luglio 1992, percependo l’assedio crescente, Craxi tenne un discorso alla Camera che, per quanto efficace, non poteva contrastare il clima nazionale favorevole alle inchieste della magistratura. Il sistema di finanziamento illecito dei partiti era insostenibile, specialmente dopo la caduta del Muro, la dissoluzione dell’URSS, la trasformazione del PCI e gli Stati Uniti che persero interesse nel sostenere la vecchia classe politica.
Nonostante Rino Formica sostenne che «contro Di Pietro Bettino ha un poker d’assi», il primo avviso di garanzia del 15 dicembre 1992 segnò l’inizio della fine politica di Craxi. Il PSI passò nelle mani di Giorgio Benvenuto e poi di Ottaviano Del Turco. Ma nessuno dei due riuscì a salvare il più antico partito italiano. Repubblica suggellò il momento con il titolo: “Addio, Ghino di Tacco”. Il 29 aprile 1993, la Camera negò in votazione segreta quattro autorizzazioni a procedere contro Craxi per corruzione e ricettazione. La sera delle monetine divenne emblematica. Accompagnato da Luca Josi, capo dei giovani craxiani, rifiutò di uscire dal retro nonostante i consigli della scorta. Le grida «Vuoi pure queste, Bettino, vuoi pure queste?!» segnarono un’umiliazione da cui non si riprenderà. Craxi ricevette due condanne: cinque anni e sei mesi per le tangenti Eni-Sai e quattro anni e sei mesi per quelle sulla Metropolitana Milanese.
La sua vicenda giudiziaria non presenta misteri, osserva Cazzullo. La sua colpevolezza, ammessa da lui stesso alla Camera, è inequivocabile. La posizione di Craxi appare ancora oggi più come una rivendicazione che una confessione. Se è vero che non si può assolvere tutti dichiarando una colpevolezza collettiva, è altrettanto innegabile che Craxi abbia pagato anche per altri. La questione se i finanziamenti illeciti servissero solo alla politica o anche al suo arricchimento personale diventa secondaria rispetto alla sua evidente spregiudicatezza. Il 17 dicembre 1993, nell’interrogatorio di Di Pietro sul caso della maxitangente Enimont (centocinquanta miliardi versati da Raul Gardini ai politici per la fallita fusione Montedison-ENI), emerse un contrasto significativo. Mentre con Forlani, segretario DC, Di Pietro venne giudicato aggressivo, con Craxi fu accondiscendente. Ma il leader socialista ricevette in primo grado la condanna più severa tra i politici.
Il 19 gennaio 2000, il funerale di Craxi si trasformò in uno psicodramma, con difficoltà persino nel sistemare il corpo nella bara troppo piccola. La famiglia rifiutò il funerale di Stato offerto da D’Alema. Venne sepolto nel cimitero di Hammamet, con un libro di marmo sulla tomba recante la frase: «La mia libertà equivale alla mia vita». Un dettaglio significativo era la presenza nel suo studio dei busti sia di Giuseppe Garibaldi che di Mussolini, fatto che all’epoca non suscitò scandalo. Scalfari riconobbe in morte: «L’uomo ha avuto la grandezza della fine». Cazzullo conclude con amare riflessioni. Definisce Craxi “l’ultimo vero politico” poiché con lui, più che con Moro, muore la Prima Repubblica. La sfiducia degli italiani nella politica riflette la loro incapacità di credere nello Stato e di concepire l’azione politica come servizio per il bene comune, rivelando un rapporto immaturo con il potere.
Amedeo Gasparini