Mauro Covacich ha riunito in Trilogia triestina (La nave di Teseo 2025) tre monologhi che ha scritto, vissuto e interpretato durante un percorso letterario tra Trieste e gli autori che l’hanno resa eterna. L’opera esplora le ossessioni, l’umanità e i lampi di genio di tre colossi della letteratura novecentesca: Italo Svevo, James Joyce e Umberto Saba. «Non sono un attore, questa è una delle poche certezze della mia vita», confessa Covacich, che inizia il suo viaggio con Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz, pioniere del romanzo analitico. Esordio dal retroterra culturale di Trieste, che nei primi del ventesimo secolo era “gemellata” con Capodistria – «due emisferi di una stessa mente». Numerosi capodistriani si recavano a Trieste per le loro attività – le due città erano collegate dal vaporetto. Trieste rappresentava una città austriaca di primo piano, la terza dell’impero dopo Vienna e Praga, nonché il principale porto asburgico.
Sia Una vita che Senilità, furono ignorati dalla critica. Svevo era conosciuto come un uomo d’affari che per diletto scriveva qualche recensione teatrale. Per i triestini della comunità italiana, che soffrivano un complesso d’inferiorità linguistica, Firenze rappresentava un luogo di rinascita culturale. Vi si recavano per imparare il toscano e molti collaboravano con la rivista La Voce, come Scipio Slataper e Giani Stuparich – seguendo l’esempio di Guglielmo Oberdan che vi aveva studiato anni prima. Negli anni Venti e Trenta, questa tradizione continuò con figure come Saba, Pier Antonio Quarantotti Gambini e Virgilio Giotti. Firenze incarnava l’ideale irredentista e Svevo collaborò con il giornale L’Indipendente, solo per soddisfare le sue aspirazioni letterarie. Iniziò la sua carriera come impiegato di banca, ma la sua vita cambiò dopo il matrimonio con Livia Veneziani. Dopo Senilità, s’impose di abbandonare la scrittura.
In una pagina del diario annotò: «Io con questa stupida cosa che chiamiamo letteratura ho chiuso». Mantenne il proposito per vent’anni, arrivando a dedicarsi con fervore al violino. Durante questo periodo incontrò L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud. Va sfatato un mito, scrive Covacich: Svevo non si è mai sottoposto a un trattamento psicoanalitico. Siamo nel periodo in cui Marcel Proust stava per pubblicare la Recherche du temps perdu. Nel 1922 uscì Ulisse di Joyce, nel 1924 La montagna incantata di Thomas Mann, nel 1925 appaiono Il processo di Franz Kafka e La signora Dalloway di Virginia Woolf. Fu Bobi Bazlen il primo a riconoscere l’innovazione de La coscienza di Zeno, segnalandola a Eugenio Montale, che poi scrisse un saggio sul romanzo. E nel frattempo, l’amico Joyce a Parigi si mobilitò per far conoscere La coscienza a intellettuali come Benjamin Crémieux e Valéry Larbaud.
Il secondo monologo di Covacich è su Joyce. Negli anni Trenta, quasi cieco, Joyce dettava il suo lavoro a un giovane irlandese a Parigi, Samuel Beckett. «Ho scritto qualcosa. Il primo episodio del mio nuovo romanzo Ulisse è scritto», annunciò Joyce con entusiasmo. Arrivato a Trieste nell’ottobre 1904, fu assunto come insegnante alla Berlitz School, rimanendovi fino al 1915, quando scoppiò la Grande Guerra che lo costrinse a trasferirsi a Zurigo. Tornò a Trieste tra il 1919 e il 1920. Ma non ritrovò più lo stesso affetto per la città. La Trieste del Regno d’Italia gli risultò indigesta. Durante il suo soggiorno triestino, scriveva al Caffè Stella Polare. «Tiravamo tardi, ma non andavamo in cerca di bordelli», ricorda. «Fa paura a tutti leggere l’Ulisse, è normale», ammette Covacich, sottolineando la complessità dell’opera, mentre Woolf descrisse l’Ulisse come «un testo scomposto, opera di un proletario autodidatta».
Joyce e Svevo s’incontrano nel 1907, quando lo scrittore irlandese iniziò a dare lezioni di inglese a lui e alla moglie. Joyce insegnava controvoglia, considerandosi un artista. Conosceva le lingue, aveva talento. Svevo, dal canto suo, è un personaggio gioviale, ricco di ironia. La loro amicizia sarebbe durata tutta la vita. A Trieste, Joyce viveva in ristrettezze economiche. Eppure, sviluppò un profondo amore per questa città, i suoi teatri, caffè, osterie e bordelli. Sarà Sylvia Beach, con la sua libreria Shakespeare and Company di Parigi, che il 2 febbraio 1922 – quarantesimo compleanno dell’autore – avrebbe pubblicato a proprie spese la prima edizione integrale dell’Ulisse. Destino diverso per Saba, protagonista del terzo monologo di Covacich, che lo esplora tramite le sue poesie più famose. «Ho attraversata tutta la città. / Poi ho salita un’erta, / popolosa in principio, in là deserta», dice il poeta riferendosi alla sua Trieste.
«Ho parlato a una capra. / Era sola sul prato, era legata. / Sazia d’erba, bagnata / dalla pioggia, belava. / Quell’uguale belato era fraterno / al mio dolore». Poi la poesia più famosa, “A mia moglie”. «Ti ritrovo in tutte / le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio, / e in nessun’altra donna». La poesia può arrivare al cuore solo se parte dal cuore. Covacich ricorda che secondo Saba, il poeta non deve cercare l’originalità a tutti i costi, non deve tradirsi per manie di grandiosità, ma deve cercare di essere, come nella vita, un uomo onesto. Perché «oltre alla banalità c’è il rischio del melodramma». L’autore si concentra sull’opera più celebre di Saba, il Canzoniere (572 poesie): una sorta di autobiografia. Così come Ernesto, incompiuto, che esplora l’educazione sessuale di un adolescente nella Trieste di fine Ottocento.
Amedeo Gasparini
Mauro Covacich ha riunito in Trilogia triestina (La nave di Teseo 2025) tre monologhi che ha scritto, vissuto e interpretato durante un percorso letterario tra Trieste e gli autori che l’hanno resa eterna. L’opera esplora le ossessioni, l’umanità e i lampi di genio di tre colossi della letteratura novecentesca: Italo Svevo, James Joyce e Umberto Saba. «Non sono un attore, questa è una delle poche certezze della mia vita», confessa Covacich, che inizia il suo viaggio con Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz, pioniere del romanzo analitico. Esordio dal retroterra culturale di Trieste, che nei primi del ventesimo secolo era “gemellata” con Capodistria – «due emisferi di una stessa mente». Numerosi capodistriani si recavano a Trieste per le loro attività – le due città erano collegate dal vaporetto. Trieste rappresentava una città austriaca di primo piano, la terza dell’impero dopo Vienna e Praga, nonché il principale porto asburgico.
Sia Una vita che Senilità, furono ignorati dalla critica. Svevo era conosciuto come un uomo d’affari che per diletto scriveva qualche recensione teatrale. Per i triestini della comunità italiana, che soffrivano un complesso d’inferiorità linguistica, Firenze rappresentava un luogo di rinascita culturale. Vi si recavano per imparare il toscano e molti collaboravano con la rivista La Voce, come Scipio Slataper e Giani Stuparich – seguendo l’esempio di Guglielmo Oberdan che vi aveva studiato anni prima. Negli anni Venti e Trenta, questa tradizione continuò con figure come Saba, Pier Antonio Quarantotti Gambini e Virgilio Giotti. Firenze incarnava l’ideale irredentista e Svevo collaborò con il giornale L’Indipendente, solo per soddisfare le sue aspirazioni letterarie. Iniziò la sua carriera come impiegato di banca, ma la sua vita cambiò dopo il matrimonio con Livia Veneziani. Dopo Senilità, s’impose di abbandonare la scrittura.
In una pagina del diario annotò: «Io con questa stupida cosa che chiamiamo letteratura ho chiuso». Mantenne il proposito per vent’anni, arrivando a dedicarsi con fervore al violino. Durante questo periodo incontrò L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud. Va sfatato un mito, scrive Covacich: Svevo non si è mai sottoposto a un trattamento psicoanalitico. Siamo nel periodo in cui Marcel Proust stava per pubblicare la Recherche du temps perdu. Nel 1922 uscì Ulisse di Joyce, nel 1924 La montagna incantata di Thomas Mann, nel 1925 appaiono Il processo di Franz Kafka e La signora Dalloway di Virginia Woolf. Fu Bobi Bazlen il primo a riconoscere l’innovazione de La coscienza di Zeno, segnalandola a Eugenio Montale, che poi scrisse un saggio sul romanzo. E nel frattempo, l’amico Joyce a Parigi si mobilitò per far conoscere La coscienza a intellettuali come Benjamin Crémieux e Valéry Larbaud.
Il secondo monologo di Covacich è su Joyce. Negli anni Trenta, quasi cieco, Joyce dettava il suo lavoro a un giovane irlandese a Parigi, Samuel Beckett. «Ho scritto qualcosa. Il primo episodio del mio nuovo romanzo Ulisse è scritto», annunciò Joyce con entusiasmo. Arrivato a Trieste nell’ottobre 1904, fu assunto come insegnante alla Berlitz School, rimanendovi fino al 1915, quando scoppiò la Grande Guerra che lo costrinse a trasferirsi a Zurigo. Tornò a Trieste tra il 1919 e il 1920. Ma non ritrovò più lo stesso affetto per la città. La Trieste del Regno d’Italia gli risultò indigesta. Durante il suo soggiorno triestino, scriveva al Caffè Stella Polare. «Tiravamo tardi, ma non andavamo in cerca di bordelli», ricorda. «Fa paura a tutti leggere l’Ulisse, è normale», ammette Covacich, sottolineando la complessità dell’opera, mentre Woolf descrisse l’Ulisse come «un testo scomposto, opera di un proletario autodidatta».
Joyce e Svevo s’incontrano nel 1907, quando lo scrittore irlandese iniziò a dare lezioni di inglese a lui e alla moglie. Joyce insegnava controvoglia, considerandosi un artista. Conosceva le lingue, aveva talento. Svevo, dal canto suo, è un personaggio gioviale, ricco di ironia. La loro amicizia sarebbe durata tutta la vita. A Trieste, Joyce viveva in ristrettezze economiche. Eppure, sviluppò un profondo amore per questa città, i suoi teatri, caffè, osterie e bordelli. Sarà Sylvia Beach, con la sua libreria Shakespeare and Company di Parigi, che il 2 febbraio 1922 – quarantesimo compleanno dell’autore – avrebbe pubblicato a proprie spese la prima edizione integrale dell’Ulisse. Destino diverso per Saba, protagonista del terzo monologo di Covacich, che lo esplora tramite le sue poesie più famose. «Ho attraversata tutta la città. / Poi ho salita un’erta, / popolosa in principio, in là deserta», dice il poeta riferendosi alla sua Trieste.
«Ho parlato a una capra. / Era sola sul prato, era legata. / Sazia d’erba, bagnata / dalla pioggia, belava. / Quell’uguale belato era fraterno / al mio dolore». Poi la poesia più famosa, “A mia moglie”. «Ti ritrovo in tutte / le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio, / e in nessun’altra donna». La poesia può arrivare al cuore solo se parte dal cuore. Covacich ricorda che secondo Saba, il poeta non deve cercare l’originalità a tutti i costi, non deve tradirsi per manie di grandiosità, ma deve cercare di essere, come nella vita, un uomo onesto. Perché «oltre alla banalità c’è il rischio del melodramma». L’autore si concentra sull’opera più celebre di Saba, il Canzoniere (572 poesie): una sorta di autobiografia. Così come Ernesto, incompiuto, che esplora l’educazione sessuale di un adolescente nella Trieste di fine Ottocento.
Amedeo Gasparini