Babel

A Babel il nuovo romanzo di Pascal Janovjak

John James Audubon aveva un modo molto noto di dipingere: procurarsi la tela più grande possibile affinché i suoi soggetti potessero essere ritratti in grandezza reale. Il proposito, però, non sempre poteva essere mantenuto. Come quando, nel 1838, gli viene chiesto di dipingere un fenicottero rosa. Corpo snello, collo lungo, zampe slanciate, l’impresa è delle meno facili. L’unica soluzione è dipingerlo chino su sé stesso, collo basso, ripiegato. Non lo splendore di un uccello libero, ma la figura di un animale in cattività, “catturato” dalla… cornice di un quadro. Proprio quel quadro e questa storia hanno trovato, di recente, una collocazione inedita: l’immagine campeggia anche sulla copertina del romanzo Lo zoo di Berlino. E non è lì per caso: ad averla scelta, con la subitanea approvazione dell’editore, è lo stesso autore Pascal Janovjak, che ha colto nell’immagine il senso del suo lavoro e del suo impegno come scrittore.

«Scrivere non è un mestiere, non lo si può quantificare in termini di denaro; è molto più simile a una vocazione. È, in fin dei conti, trovare punti di vista diversi sulle cose». Con questa ferma convinzione, Janovjak – che incontriamo in un’assolata Bellinzona, nel vivo della prima giornata del Festival Babel – ha messo mano al suo secondo romanzo, riuscendo a strappare ben tre premi: il Premio svizzero di letteratura, anzitutto, ma poi anche il Premio Michel-Dentan e il Premio del pubblico della Radiotelevisione della Svizzera italiana. Tre successi, indizio di un consenso – tutto meritato – che ha portato il libro persino dall’altra parte del mondo, dove pare, ci racconta Janovjak, il romanzo viene letto con uguale interesse che in Svizzera o Italia.

Che il “punto di vista” di questo romanzo sia “diverso” e fuori dal comune, non c’è dubbio. A partire dallo stesso modo di guardare alla Città eterna: non la Roma del Colosseo, del Circo Massimo o dei Fori imperiali, ma una Roma vista, considerata, apprezzata – e anche criticata – a partire da un luogo di cui pochi di noi, probabilmente, si immaginavano l’esistenza: il suo zoo.

«È un luogo che scopro anche io un po’ per caso, dopo essermi trasferito in città», ci racconta Janovjak, che dal 2011 vive e lavora a Roma. Vedere tutti quegli animali attraverso un vetro, nella loro fissità, interroga profondamente lo scrittore, che sente di poter avere qualcosa da dire, e soprattutto da scrivere, al riguardo. Soprattutto gli pare che lo zoo rappresenti un po’ le ambizioni “esagerate”, che l’uomo nutre dai tempi del colonialismo a questa parte; ambizioni che lo tormentano e lo portano a compiere imprese paradossali. Ultimo – o forse primo – di questi paradossi è pensare che la naturale imperfezione della natura possa essere domata e tenuta sotto controllo, dietro un vetro: rappresentare la natura, piuttosto di lasciarla libera di esistere; proprio come il ritratto di Audubon.

«È un po’ una pazzia pensare di poter ricostruire il mondo naturale in modo tanto artificiale, eppure c’è chi oggi ci crede ancora. Crediamo fortemente nella capacità dell’uomo di eliminare le imperfezioni, di tenere sotto controllo le cose fino a convincerci che questo atteggiamento possa essere strumento di governo anche della natura, oltre che degli uomini. Ma la natura è più complessa, più ricca, anche più violenta. Gli animali muoiono in uno zoo quanto in una savana. Ma al mattino, nello zoo, arriva il guardiano che elimina queste tracce di morte».

Il romanzo di Janovjak ci rende attenti di come lo zoo, e la sua natura “domata”, siano diventati nel tempo un mito. Eretto nel cuore della capitale nel 1911 per celebrare il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, lo zoo di Roma rappresenta proprio il sogno di grandezza e espansione della nazione. Luogo di controllo e anche, in un certo senso, di prevaricazione diventa così il simbolo di quella mentalità coloniale, che nei primi del Novecento avrebbe prodotto una serie di tensioni poi sfociate nella Prima guerra mondiale. All’inizio del romanzo, il lettore segue la creazione dello zoo insieme al suo ideatore tedesco, Karl Hagenbeck, celebre commerciante di bestie selvagge. Più tardi, faranno capolino anche Benito Mussolini con la sua leonessa, il papa e Salman Rushdie. Attraversando il XX secolo, Janovjak offre al lettore una serie di spunti per interrogare un secolo di relazioni con la natura, e che conduce fino al presente e all’attuale dibattito ecologico. «Se oggi vogliamo discutere di ecologia – è forse uno dei pochi temi contemporanei che ci tiene veramente uniti – credo dobbiamo acquisire una consapevolezza anche su questi meccanismi di rappresentazione», ci spiega.

Il percorso di Janovjak, come scrittore, è complesso e stratificato. Una serie di esperienze contribuiscono a rafforzarne l’identità: nato nel 1975 a Basilea da madre francese e padre slovacco, ha studiato letterature comparate e storia dell’arte a Strasburgo e in seguito è stato insegnante di francese in Giordania e Libano. Dal 2002 al 2005 è stato anche direttore dell’Alliance Française de Dhaka, in Bangladesh, prima del trasferimento a Roma. A Babel approda quest’anno per la prima volta da ospite. Molto contento per la traduzione di Maurizia Balmelli per Casagrande, che gli permetterà – spera – di far “tornare a casa” il suo racconto, con delle letture pubbliche in italiano auspicabilmente proprio a Roma, esprime soddisfazione anche per la cura dei dettagli, con la quale è stata curata la pubblicazione. Mentre l’idea di un prossimo romanzo – che, ci pare di intuire, è già nell’aria e, forse, continuerà a offrire spunti per una discussione sul rapporto dell’uomo alla natura – già ci incuriosisce, iniziamo col cogliere l’occasione di domani, quando alle ore 10, Janovjak calcherà il palco del Teatro Sociale di Bellinzona – assieme a Elisa Shua Dusapin, Stella N’Djoku e Vanni Bianconi – per convincerci, qualora avessimo ancora dei dubbi, che la storia dello zoo di Roma riguarda da vicino chi eravamo, e chi speriamo di (non) essere più: un po’ meno prevaricatori, e più custodi del Creato.

(LQ)

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