L’orrido e il suo contrario, La bellezza. Così il titolo del primo incontro della terza giornata di conferenze di PiazzaParola al LAC, che ha visto protagonista il teologo Vito Mancuso, stimolato dalle domande del giornalista RSI Roberto Antonini. Se il mostro di Frankenstein è simbolo del deforme e demoniaco ma anche di nostalgia di un’armonia perduta, cos’è il suo opposto, La via della bellezza (dal libro di Mancuso, uscito nel 2018)? È un riconoscimento universale oppure varia il suo statuto nelle diverse culture, differenti epoche ed etnie e quali i rapporti con l’etica?
Innanzitutto, un interrogativo privato. Mancuso è stato ordinato sacerdote, giovanissimo, dal Cardinale Martini, a distanza di un anno ha chiesto di esserne dispensato. Perché? È stato il corpo, non stava bene e sapeva che sarebbe stato peggio, soffrendo la privazione di affetto, sentendo che uno dei compiti dell’uomo è stare bene per poter fare il bene (kantianamente), ha lasciato, dedicandosi agli studi di teologia e portando avanti un tipo di fede filosofica, ha dichiarato.
In quanto alla bellezza, se muta nella percezione, in sé è un concetto universale, essendo tre le sue fonti, le sue origini, la natura di cui chiunque può ammirare l’armonia ma anche il fascino della disarmonia (nelle sue manifestazioni catastrofiche ad esempio, ovviamente, se sta al sicuro, l’osservante…); la seconda è la bontà, essere “belle persone”, in questo inscindibile dall’etica, l’anima umana che mantiene bellezza anche nella sofferenza, nel “piacere negativo”. Infine l’arte: sotto questo profilo Mancuso si è dimostrato un “conservatore”, considerando non arte, ma abilità di comunicazione le tendenze performative. Per contro la relazione dell’artista con l’etica non è un fatto morale, di edificazione o di fede ma di autenticità. Qualsiasi ricerca in questo senso è etica anche se la figura dell’artista dal profilo ideologico è discutibile (si sono citati Celine e Cioran). Spazio è stato dato a Vasilij Grossman, l’autore di Vita e destino per considerare la relazione della bellezza non tanto con un concetto di religiosità ma di spiritualità e di speranza che è un altro dei compiti dell’essere umano. Ovviamente, Dostoevskij, la cui famosa frase “La bellezza salverà il mondo” non era affatto un dogma, ma inserita nel romanzo L’idiota, come provocazione, come interrogativo che richiama anche il suo contrario. Una dialettica dunque aperta ma una necessità continua di ricerca. Finendo, il discorso di Mancuso, sul tema della libertà insita nello spirito, nel soffio vitale, in quell’anima che ci fa essere “indeterminati”, cioè non già pre-destinati, nelle possibilità di agire da giusti. Qualche consiglio pratico nella vita di tutti i giorni? Fare pulizia, a quanto pare, circondarsi di cose belle, nell’abitare, nel vestire, fiori e piante, ma non troppo, un po’ di Zen in queste opinioni: l’accumulazione, il disordine, creano disagio, il troppo minaccia, soffoca la bellezza che ha bisogno di misura. Questo il pensiero condivisibile di Vito Mancuso.
La seconda parte della serata di ieri, davanti ad una folta platea, è stata una lettura scenica, Autoritratto di Autrice, in cui Margherita Saltamacchia non nuova agli adattamenti letterari, si è cimentata con il classico che fa da filo conduttore dell’edizione di quest’anno. Con le sottolineature della chitarra elettrica di Chris Zatta, ha incorniciato la sua sintesi di Frankenstein nella biografia di Mary Shelley, a partire dall’ambiente, intellettuale, illuminista in cui è cresciuta, anche sullo sfondo campagnolo della selvaggia Scozia. Giovanissima, colta, sognatrice, avendo come compagno un poeta, eccola a Ginevra nel 1816, in quell’anno meteorologico particolare che per colpa dell’esplosione di un vulcano fu “senza estate”, a narrare la genesi del suo capolavoro. Nella noia di quel clima uggioso, nell’atmosfera tenebrosa, tra gli amici, oltre la coppia Shelley, Polidori e Byron a lanciare l’idea di una gara di scrittura: inventare una storia cupa, di fantasmi. Mary fa fatica a trovare l’idea che le appare poi in un sogno ad occhi aperti, un pallido studente, davanti al cadavere del suo mostro… Una suggestione “galvanizzante” (se si pensa agli esperimenti di cui Mary era venuta a conoscenza). A questo punto Saltamacchia abbandona la “cornice” per entrare nella lettura dei brani, capitali, scelti. Una buona selezione condotta con variazioni di voce e una partecipativa drammatizzazione sonora, alti e bassi, profondi e improvvisi. Fa rivivere la paura e i rimorsi del dottor Frankenstein in fuga che prende consapevolezza da quello che aveva creato e scatenato in quella notte tempestosa e funebre. E poi il dialogo con il mostro ormai assassino che chiede di essere ascoltato e che narra quello che è successo dalla “nascita” abnorme e dolorosa alla solitudine perché tutti scappano o urlano alla sua vista, lo scacciano. Condannato alla privazione di radici, di legami, d’amore, avendo acquistato conoscenza dell’uomo, nel bene e nel male, a confronto della propria deformità, chiede di avere una compagna, almeno un essere con cui condividere la sua diversità. Il mostro è un essere spaventoso, ma dimostra di avere una sensibilità e, a modo suo, un’anima. Quindi troviamo ancora il dottore alle prese con un dilemma etico, i dubbi di ciò che sta (ri) facendo dalle conseguenze imprevedibili il cui pensiero lo porta a distruggere la sua opera ancora incompiuta. Il mostro gli giura vendetta, gli avrebbe sottratto ogni speranza di felicità, l’appuntamento terrificante sarà per la prima notte delle nozze di Frankenstein.
Alla fine, la parola torna a Mary Shelley che parla della sua opera a cui resta affezionata, per quanto terribile, perché scritta in un periodo felice della sua vita. Infatti fu una parentesi di serenità in un’esistenza funestata da lutti.
A lungo la performance è stata applaudita. Gli eventi continuano oggi per concludersi domani, domenica (per il programma: piazzaparola.ch).
Manuela Camponovo