La pandemia e la guerra in Ucraina – con nello sfondo la crisi climatica e ambientale – hanno sconvolto le relazioni economiche e la geopolitica mondiale. In pochi anni è crollato il modello della globalizzazione dell’economia e, soprattutto, quello della sua declinazione politica, il globalismo. Siamo così piombati dalla pentola alla brace.
La globalizzazione, grazie al progresso tecnologico, alla digitalizzazione e alla rivoluzione dei trasporti e della logistica, aveva fatto sperare in un modello di mercato e di scambi liberalizzato e vincente per tutti.
Esso si è trasformato in una trappola ideologica: a causa di un’ingenua, o meglio, di una spudorata fiducia nei poteri autoregolatori di un mercato mondiale, sostitutivi della politica. Infatti, in mancanza di una governanza politica all’altezza delle sfide, la globalizzazione è stata soprattutto appannaggio dei nuovi grandi players economici – dai media digitali e ai giganti energetici e delle materie prime – assecondati dal paradigma della triade “globalizzazione-liberalismo-democrazia”, di colore a stelle e strisce. Un fallimento.
Eliana Bernasconi, La scala che sale sempre, 2018
Nella trappola del globalismo sembrano essere caduti anche una parte dei suoi avversari, rifugiandosi in protezionismi di varia natura, spesso radicali ma – per il sociologo Ulrich Beck – singolarmente alleati. Il protezionismo nero, che rivuole uno Stato forte, ma poi distrugge con questo i valori stessi dello Stato-nazione. Il protezionismo verde che vede lo Stato-nazione come un biotopo minacciato di morte e quindi lo protegge a riccio contro le aperture. Il protezionismo rosso che rispolvera la vecchia lotta di classe e la globalizzazione che serve loro per dire “avevamo ragione”.
Si tratta appunto di trappole alle quali occorre opporre una visione più ragionata, inserendo e qualificando più compiutamente i processi di globalizzazione in un contesto di globalità. Il termine globalità sottintende la coscienza di vivere da tempo in una società mondiale, costituita dall’insieme dei rapporti sociali che non sono integrati nella politica dello Stato nazionale o non sono da essa determinati o determinabili.
Nell’accezione di “società-mondo” la globalità è sinonimo di molteplicità, di differenze; società mondiale può intendersi come molteplicità senza unità.
Ne risulta l’impossibilità di rappresentare degli spazi chiusi. Nessun Paese, nessun gruppo si può isolare dall’altro. In tal modo la globalità comprende anche lo scontro tra le diverse forme economiche, culturali, politiche. Ciò che si sarebbe dovuto fare è diventato oggi una necessità di sopravvivenza – specie per noi europei – in un contesto geopolitico totalmente rovesciato e minaccioso. Nel primo decennio del nuovo millennio non si parlava piuttosto di EuRussia e di avvicinamento USA-Cina? Un tema che vogliamo riprendere presto.
Remigio Ratti
La pandemia e la guerra in Ucraina – con nello sfondo la crisi climatica e ambientale – hanno sconvolto le relazioni economiche e la geopolitica mondiale. In pochi anni è crollato il modello della globalizzazione dell’economia e, soprattutto, quello della sua declinazione politica, il globalismo. Siamo così piombati dalla pentola alla brace.
La globalizzazione, grazie al progresso tecnologico, alla digitalizzazione e alla rivoluzione dei trasporti e della logistica, aveva fatto sperare in un modello di mercato e di scambi liberalizzato e vincente per tutti.
Esso si è trasformato in una trappola ideologica: a causa di un’ingenua, o meglio, di una spudorata fiducia nei poteri autoregolatori di un mercato mondiale, sostitutivi della politica. Infatti, in mancanza di una governanza politica all’altezza delle sfide, la globalizzazione è stata soprattutto appannaggio dei nuovi grandi players economici – dai media digitali e ai giganti energetici e delle materie prime – assecondati dal paradigma della triade “globalizzazione-liberalismo-democrazia”, di colore a stelle e strisce. Un fallimento.
Eliana Bernasconi, La scala che sale sempre, 2018
Nella trappola del globalismo sembrano essere caduti anche una parte dei suoi avversari, rifugiandosi in protezionismi di varia natura, spesso radicali ma – per il sociologo Ulrich Beck – singolarmente alleati. Il protezionismo nero, che rivuole uno Stato forte, ma poi distrugge con questo i valori stessi dello Stato-nazione. Il protezionismo verde che vede lo Stato-nazione come un biotopo minacciato di morte e quindi lo protegge a riccio contro le aperture. Il protezionismo rosso che rispolvera la vecchia lotta di classe e la globalizzazione che serve loro per dire “avevamo ragione”.
Si tratta appunto di trappole alle quali occorre opporre una visione più ragionata, inserendo e qualificando più compiutamente i processi di globalizzazione in un contesto di globalità. Il termine globalità sottintende la coscienza di vivere da tempo in una società mondiale, costituita dall’insieme dei rapporti sociali che non sono integrati nella politica dello Stato nazionale o non sono da essa determinati o determinabili.
Nell’accezione di “società-mondo” la globalità è sinonimo di molteplicità, di differenze; società mondiale può intendersi come molteplicità senza unità.
Ne risulta l’impossibilità di rappresentare degli spazi chiusi. Nessun Paese, nessun gruppo si può isolare dall’altro. In tal modo la globalità comprende anche lo scontro tra le diverse forme economiche, culturali, politiche. Ciò che si sarebbe dovuto fare è diventato oggi una necessità di sopravvivenza – specie per noi europei – in un contesto geopolitico totalmente rovesciato e minaccioso. Nel primo decennio del nuovo millennio non si parlava piuttosto di EuRussia e di avvicinamento USA-Cina? Un tema che vogliamo riprendere presto.
Remigio Ratti