Boris Pahor, lo scrittore triestino di lingua slovena che raccontò l’orrore dei lager non c’è più. È morto questa mattina, lunedì 30 maggio, a 108 anni. Ai suoi libri unì sempre l’impegno a trasmettere ai giovani il valore della testimonianza, ma la sua grandezza – per molti paragonabile a quella di Primo Levi – venne riconosciuta troppo tardivamente. Al centro delle sue opere, circa una trentina di libri di narrativa e saggistica tradotti in diverse lingue, i temi della libertà e della dignità dell’individuo, degli umiliati e degli offesi.
Nato a Trieste il 26 agosto 1913 da suddito dell’Impero austro-ungarico, quando la città giuliana ospitava la comunità slovena più numerosa, Pahor si era ritrovato bambino sotto la giurisdizione del Regno d’Italia. A sette anni, nel 1920, aveva assistito al rogo del Narodni Dom triestino, sede delle associazioni slovene, dato alle fiamme dagli squadristi. Subito dopo a Pahor venne sottratta la lingua madre, perché il fascismo aveva chiuso d’imperio le scuole slave e costretto i loro alunni a frequentare quelle italiane. Vennero poi per Boris Pahor gli studi nel seminario cattolico di Capodistria, istituzione almeno in parte sottratta alle ingerenze del fascismo. Quindi il servizio militare durante la guerra, prima in Libia, sotto le bombe britanniche, poi in Italia come interprete degli ufficiali jugoslavi prigionieri. Dopo l’8 settembre 1943 e la resa italiana agli anglomericani, vennero il ritorno a Trieste e l’adesione alla Resistenza, pagata con l’arresto e la deportazione.
Nel 1944 era cominciato il periodo più tragico della vita di Pahor, con la reclusione in diversi lager, situati in Francia e in Germania. Essere un poliglotta (oltre all’italiano e allo sloveno, utile per comunicare con tutti gli slavi, conosceva il tedesco e un po’ di francese) probabilmente gli salvò la vita: divenne infermiere ed evitò i lavori più pesanti. Di quei giorni terribili avrebbe scritto nel suo capolavoro Necropoli (1967). L’opera, scritta in sloveno, aveva dovuto attendere trent’anni per essere tradotta in italiano nel 1997, dalle semisconosciute e meritorie Edizioni del Consorzio culturale del Monfalconese, e solo nel 2008 era uscito presso un editore di statura nazionale, Fazi, con la prefazione di Claudio Magris. All’epoca Pahor aveva già 95 anni e l’anno prima aveva ricevuto a Parigi la Legion d’onore: i suoi ricordi del lager erano usciti in Francia nel 1990. In Italia per lungo tempo solo la piccola casa editrice Nicolodi (poi Zandonai) di Rovereto aveva preso in considerazione le altre sue opere, tra cui Il rogo nel porto (2001), La villa sul lago (2002), Il petalo giallo (2004), Una primavera difficile (2009).
Dal 1966 al 1991 dirige e pubblica la rivista Zaliv che assurge, negli anni, a unica tribuna slovena libera e indipendente in cui Pahor accoglie anche autori della dissidenza e della diaspora politica slovena. Nel 1975 la collana accoglie un libro, firmato dallo scrittore Alojz Rebula (1924) e dallo stesso Pahor, in cui Edvard Kocbek, capo dell’ala cristiano-sociale del Fronte di liberazione sloveno, denuncia gli eccidi dell’immediato Dopoguerra, perpetrati dall’esercito jugoslavo e con la connivenza delle truppe britanniche nei confronti di migliaia di collaborazionisti sloveni. Questo j’accuse, considerato uno dei documenti più importanti della storia slovena, provoca in Jugoslavia una reazione politica di proporzioni enormi, con echi europei: a Pahor viene vietato per lunghi periodi l’ingresso in Jugoslavia. Sono anni di isolamento, anni in cui Pahor diviene persona non grata, le sue opere non vengono prese in considerazione dalla critica, anni in cui viene vessato e diffamato anche da alcuni suoi vecchi collaboratori che erano, evidentemente, persone di fiducia del regime titino fuori dai confini jugoslavi. Solo dopo la nascita della Slovenia indipendente, nel 1992, a Pahor era stato assegnato il premio Prešeren, il più importante riconoscimento culturale del Paese.
Del resto anche in Italia, nonostante i molti onori che gli erano stati tributati, compresa la candidatura al Nobel, Pahor era rimasto un personaggio scomodo. Non aveva esitato a biasimare il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, perché nel 2007 aveva condannato fermamente i crimini dei partigiani jugoslavi senza menzionare quelli compiuti in precedenza dall’Italia fascista sulle popolazioni slave. E nel 2010 aveva rifiutato un riconoscimento del comune di Trieste, perché nelle motivazioni si citavano le sofferenze da lui subite nei lager nazisti, ma non gli abusi cui aveva dovuto sottostare sotto il regime di Benito Mussolini.