Lutto

Addio a Maria Giuseppina Panza di Biumo, una vita per l’arte

Giuseppina Panza (1958-2025).

Non la vedremo più alle mostre e negli ambienti ticinesi  dell’arte. Si è spenta Maria Giuseppina Panza di Biumo sposata Caccia Dominioni, figura centrale nella valorizzazione e tutela della straordinaria Collezione d’arte contemporanea del padre, conte Giuseppe Panza di Biumo. Aveva 67 anni. Maria Giuseppina ha dedicato la vita all’arte e alla promozione di Villa Panza, dove è cresciuta, oggi sede di una straordinaria collezione d’arte del XX secolo, da tempo nota in tutto il mondo. Da molti anni diirigeva la “Panza Collection” con sede a Mendrisio, dove spesso risiedeva. Nel 1994 il padre Giuseppe Panza di Biumo ha donato oltre 200 opere all’allora Museo cantonale d’arte, poi confluito nell’attuale MASI, Museo d’Arte della Svizzera Italiana.

Nata nel 1958 da Giuseppe Panza di Biumo e Rosa Giovanna Magnifico, Maria Giuseppina, seconda di cinque figli e unica femmina, aveva sposato Gabriele Caccia Dominioni da cui ha avuto tre figli. Ha iniziato a lavorare nella Collezione di famiglia alla fine degli anni Ottanta: prima nell’archivio, poi con mansioni sempre più importanti fino a direttrice della Collezione e, come tale, uno dei punti di riferimento sulla scena dell’arte contemporanea a livello internazionale, che ha fatto conoscere organizzando mostre, tenendo lezioni e conferenze.

Grazie al suo impegno a Villa Panza a Varese si alternano installazioni di arte ambientale e site-specific con lavori di molti dei maggiori artisti del nostro tempo, tra i quali Dan Flavin, di cui la collezione vanta la più grande concentrazione di opere perennemente esposte, James Turrell e Robert Irwin. Grazie al lavoro di Maria Giuseppina, la splendida e panoramica villa Panza, già Litta-Menafoglio sulla collina di Biumo Superiore, quartiere storico di Varese, è diventata sede di importanti mostre dal respiro internazionale. A tutti i suoi cari, con particolare vicinanza alla mamma Rosa Giovanna nata Magnifico, esprimiamo i sensi delle nostre più sentite condoglianze.

Ci pare utile pubblicare l’intervista a Maria Giuseppina Panza Caccia Dominioni realizzata da Dalmazio Ambrosioni, nostro collaboratore per l’arte, pubblicata sul “Giornale del Popolo” del 17 febbraio 2018.

 

Giuseppe Panza di Biumo e la sua collezione. A colloquio con la figlia Giuseppina Panza-Caccia Dominioni.

Ha cambiato i destini dell’arte

Un visionario concreto, che ha riunito oltre 2.500 opere di artisti soprattutto americani dagli anni ’50 alla morte nel 2010. Chi lo sosteneva e chi lo derideva, ma le sue scelte si sono rivelate azzeccate e vincenti e oggi fanno la fortuna dei principali musei del mondo. Nel 1994 ha donato oltre 200 opere al Museo cantonale d’Arte a Lugano. La speranza è di vederle in una grande mostra al LAC.

«Perché colleziono? Forse per toccare l’invisibile con gli occhi e con l’anima». Una bella sera di maggio, 27 anni fa a Locarno, Villa Igea. Giuseppe Panza di Biumo si presentava in pubblico per la prima volta in Ticino. Per me, che lo presentavo, come per i non moltissimi presenti, quella meravigliosa risposta fu a un tempo la sintesi della serata, la spiegazione più bella del suo impegno di collezionista e forse di una vita, oltre che una splendida indicazione sul rapporto con l’arte. Quella serata mi torna alla mente incontrando la figlia, Giuseppina Panza-Caccia Dominioni, che attraverso la Panza Collection con sede a Mendrisio continua quella splendida storia di famiglia, conosciuta nel mondo come una delle più brillanti avventure nell’arte contemporanea.

Dopo quella sera, Giuseppe Panza di Biumo in Ticino è tornato a più riprese. All’allora Museo cantonale d’Arte ha donato parte della sua Collezione: duecento opere realizzate negli anni ’80 e ’90 da ventinove artisti europei e americani. All’inaugurazione Giuseppe Buffi, allora capo del DECS e quindi ministro della cultura, era commosso per quella straordinaria donazione, che veniva ad arricchire il nostro patrimonio d’arte. Giuseppe Panza era tra coloro che coltivavano il sogno di veder nascere in Ticino, a Lugano, un Museo dotato di personalità e spazi adeguati, in grado di accogliere e dare visibilità anche alle opere della sua donazione, e magari di seguirne le tracce. Adesso quel museo l’abbiamo e l’ulteriore sogno è di vedere l’intera collezione esposta al LAC. Sarebbe un evento di portata internazionale, oltre che il giusto riconoscimento al collezionista-mecenate.

Signora Giuseppina Panza, partiamo dalla storia della famiglia per capire com’è nata quella passione nel papà.

Torniamo alle origini, al bisnonno Alessandro, a una famiglia di produttori di vino venuta a Milano da San Salvatore Monferrato. Vino e alcol prodotti dalla frutta, mele del Trentino e carrube calabresi, e poi terreni e costruzioni, un’impresa di successo. Papà Giuseppe nasce nel 1923 a Milano, dicono fosse un sognatore, più affine alla madre Maria Mantegazza. Seguiva mamma e nonna quando andavano a dipingere sul lago di Varese, si beava guardando gli spazi aperti, il panorama di laghi e colline, s’interessava di storia, filosofia e arte. Quando il nonno acquista Villa Litta Menafoglio a Biumo, oggi Varese, papà si innamora di quella dimora. La trova ideale per ospitare la Collezione d’arte.

C’entra l’arte in questa scelta professionale?

C’entra per opposizione. Mentre preparava l’esame di diritto privato la sorella maggiore lo coglie con un libro d’arte e glielo strappa di mano. Già da ragazzo quando aveva quattro soldi comperava le riproduzioni dei quadri preferiti, li studiava nei dettagli. A visitare un museo con lui non si finiva mai: si fermava ore davanti ai quadri, lente in mano, si avvicinava troppo, suonavano gli allarmi… Gli piaceva scoprire particolari, conoscere tutto degli artisti, il periodo, gli stili, i materiali. Gli affari erano necessari per vivere, sapeva farli molto bene ma non gli davano gioia. Li ha fatti con l’arte; le sue scelte negli anni si sono rivelate fortunate e azzeccate.

Nonno Ernesto muore nel 1948, lascia ai figli azienda, beni immobili e aree edificabili. E Giuseppe?

Papà si laurea in giurisprudenza, tesi sulla filosofia del diritto, ma non ha mai praticato. Segue gli affari di famiglia, si interessa all’arte. Lega con l’intellighenzia milanese e varesina del tempo, da Atanasio Soldati a Tavernari e Guttuso. Nel ’53 la famiglia lo invia in Brasile per nuovi investimenti. Dopo i 3 mesi concordati, anziché tornare decide di attraversare gli Stati Uniti da una costa all’altra, sta via un anno e mezzo. È un periodo formativo fondamentale: “Là ci sono una vitalità, un’energia contagiose”. Al ritorno sposa Rosa Giovanna Magnifico, si trasferiscono nella casa di Porta Romana a Milano dove collezionano arte con i consigli di Guido Le Noci della Galleria Apollinaire. Da Milano a Parigi, conosce e rimarrà amico di Pierre Restany, fondatore del Nouveau Réalisme, avvicina l’opera di Tapies e di Fau- trier, vede su Civiltà delle Macchine opere di Franz Kline. Acquista Kline dal gallerista Sidney Janis a New York e Rothko alla Galleria Blu di Milano, conosce tra New York e Los Angeles artisti, acquista opere di Rosenquist, Oldenburg, Segal…

Dall’Informale europeo alla Pop Art. Molti artisti, come Lawrence Carroll, ricordano il piacere di vederlo entrare in atelier all’improvviso e chiedere del loro lavoro. Uno stress anche per voi questo papà che c’era e non c’era…

Direi di no perché mamma, innamorata pazza, lo assecondava, quel che faceva era vangelo. Senza di lei non avrebbe potuto realizzare una collezione così. I primi anni andava da solo, a casa c’erano 3, 4 e poi 5 figli. Ricordo la felicità di mamma quando tornava, i contatti, le cene, gli incontri… Noi più grandicelli, lo accompagnava anche mamma, e mentre crescevamo si allungavano le assenze, prima 15 giorni, poi un mese, metà a New York, metà a Los Angeles due volte l’anno. Negli USA cominciavano a conoscere lui, le sue scelte, gli artisti. In casa a Villa Litta sempre opere nuove tra tanta curiosità anche di noi figli. Il giardiniere Angelo Soldati faceva da guida, per questo ha imparato l’inglese. Quando Sol LeWitt è venuto a operare nelle scuderie della villa, era lui il punto di riferimento.

Mitico il “metodo Panza” nello scegliere artisti e opere. Ce lo può spiegare?

Iniziava a New York dalle Gallerie che promuovevano artisti che gli interessavano, come Leo Castelli ed Eric Stark. Poi visitava gli artisti: alcuni presentavano le opere già appese alle pareti, altri le mostravano una per volta. Rimaneva impassibile, in silenzio. Le riguardava bene, se c’era mamma si guardavano tra loro, primi commenti, intese e poi la scelta: prendo questo e questo. Un paio d’ore, talvolta mezza giornata. Seguivano le visite ad altre Gallerie a Soho, Chelsea, al Moma, al Metropolitan, al Guggenheim, alle varie mostre… Lo stesso poi a Los Angeles.

Ma perché negli States negli anni in cui il centro dell’arte pareva in Euro?

Ha scelto anche europei, ma riteneva che il pensiero degli artisti americani fosse più nuovo, aperto e stimolante, spesso li considerava più avanti dei musei. In tanti hanno scoperto l’arte minimal in casa nostra prima che nei musei. Non si spaventava per essere all’avanguardia, troppo esposto. L’hanno esaltato ma anche deriso, è sempre andato per la sua strada. A noi diceva: non preoccupatevi, vedrete che tutto andrà a posto, anche artisti che adesso non interessano avranno la loro importanza. I fatti gli hanno dato ragione.

E mamma?

Le scelte sono anche di mamma. Quando comperava senza di lei faceva più errori, qualche volta lo rimbrottava ma per lo più gli dava ragione. Mamma aveva studiato pianoforte al Conservatorio, leggeva Croce, aveva una formazione umanistica, una donna di pensiero. Quando è stato possibile hanno iniziato a viaggiare e scegliere insieme, papà le sottoponeva le scelte. Talvolta chiedeva anche a noi figli.

E voi?

La Collezione ci portava via papà e poi ce lo restituiva, ma quel suo “lavoro” ci interessava e divertiva. Siamo cresciuti tra musei, opere, artisti e insieme alla Collezione, il nostro modo di pensare e vedere è stato fortemente influenzato da quelle scelte e da quelle visioni. Passavano per casa artisti alternativi rispetto ai tempi. Era divertente vedere Robert Irwin e altri dell’arte ambientale americana in salopette e jeans accanto a papà sempre perfetto, abito e cravatta. È stato uno shock quando ci ha portato a cena uno storico dell’arte di colore… Tutto questo ci ha fatti crescere in modo diverso, più aggiornati.

E lui, papà?

Sempre imperturbabile. Acquistava un’opera, la collocava in casa, la studiava. Se gli piaceva ne prendeva altre, diceva che una sola non serve a far conoscere un artista. L’idea era di farle vedere a tutti nei musei: per una mostra voglio stanze in cui la gente sia avvolta dallo spirito dell’artista. In tutto ha riunito circa 2.500 opere. I problemi di spazio iniziano già negli anni ’70 con l’Arte Minimal e la Light Art: Dan Flavin, Robert Morris, Donald Judd, Bruce Nauman, Richard Serra ecc. Avvia rapporti con i musei, Düsseldorf e Mönchengladbach poi il Moca a Los Angeles. Intanto la fama cresceva. Thomas Krens, direttore della Fondazione Solomon Guggenheim viene a Madrid, Museo Reina Sofia, vede l’arte minimal, se ne innamora. Poi altri musei.

Come sono stati risolti i problemi di spazio e di visibilità?

Per non disperdere la Collezione decide di dividerla per nuclei consistenti e compatti, che dessero una visione globale. Per gli stessi musei più che vendite erano regali, il valore d’asta era al minimo e papà faceva ulteriori sconti fino al 50%… Non andando a buon fine i tentativi di collocare la collezione in alcuni musei tedeschi o in dimore storiche in Italia, nell’84 vende un’ottantina di pezzi e ne regala 70 al Museum of contemporary Art di Los Angeles, poi 202 opere di pittura e scultura minimal anni ’60 e ’70 al Guggenheim di New York. Continua il programma di vendite, donazioni e prestiti, nel 1994 dona duecento opere di arte organica e monocromatica al Museo cantonale d’Arte a Lugano, due anni dopo cede Villa Litta al FAI, compresa una parte della collezione d’arte contemporanea, gli arredi e l’arte africana, instaura rapporti con musei a Washington, Buffalo, New York, San Francisco…

L’intento suo e poi vostro?

La massima aspirazione era che tutti potessero gioire di quello che piaceva a lui. Noi lo stesso, sempre pensando a non disperdere la collezione in mille rivoli ma in nuclei consistenti e specifici. Papà aveva stretto accordi per esposizioni sistematiche ogni tot anni, ma nel tempo cambiano le esigenze dei musei, i direttori e il gusto e di queste cose ci si dimentica… Oggi come eredi abbiamo una visione completa di tutte le collocazioni, ottimi rapporti con musei e direttori, sappiamo cosa succede. Seguiamo i vari nuclei di opere nel mondo anche dal punto di vista affettivo, rispettando le volontà di papà, e speriamo sempre nella promozione degli artisti. Essenziale che le opere vengano esposte a viste: sono un valore culturale e affettivo per noi e un valore artistico e finanziario per i musei.

Dalmazio Ambrosioni

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