Al Teatro Studio ti consegnano le cuffie, D sta per orecchio destro, S sinistro; te le appoggi in testa e speriamo che funzionino. Perché ormai è pratica comune incoraggiare l’intimità – accorciando la di per sé già ridotta distanza tra performer e pubblico – sfruttando dispositivi elettronici, qui radioguide. Senza scordare che l’ascolto in cuffia permette pure all’attrice (presente in scena, a pochi metri dalla cinquantina di spettatori seduti ai lati opposti della sala) di sostenere efficacemente i cambi interpretativi, passando dai timbri soavi appiccicati alla vulnerabilità della protagonista ai toni gravi e ridanciani da killer sboccato, grottesco e grasso nella sua risata impudica. La celebrata coppia (anche nella vita) Cuocolo/Bosetti di Iraa Theatre fa collassare la distanza tra pubblico e performer e ripercorrendo il suo decalogo si capisce perché: il teatro è contaminazione. Non c’è distanza tra me e quello che sta in scena. Le nostre storie non sono poi così dissimili (per questo si parte da vicende autobiografiche, o comunque le si introduce, le si sparge sopra la trama di un libro che si è scelto quale plot, trama). Ieri sera al LAC in prima internazionale abbiamo apprezzato R.L. e, di conseguenza, abbiamo apprezzato anche Alice Munro, autrice di Troppa felicità, romanzo uscito da Einaudi nel 2009. Una scrittrice canadese (premio Nobel per la letteratura nel 2013, mica l’ultima arrivata) per una compagnia che dopo quattro anni dalla sua fondazione – a Roma, nel 1978 – si è trasferita a Melbourne dove si è rapidamente installata conquistandosi i favori della critica internazionale. Fino al 2012 l’Australia, ora di nuovo fra Vercelli e la capitale.
Ma sempre allestendo i suoi lavori in spazi inconsueti (penso alla metropolitana, recentemente, a Napoli, o agli hotel, le strade, le gallerie d’arte), mosse come sono – le due anime di Iraa Theatre Roberta Bosetti e Renato Cuocolo – dal desiderio di sfondare la (sottile?) membrana che ci separa dall’impossibile, orientati a una illecita geografia dell’intimità. Realtà + finzione = (spesso) storia. Se sei fortunato (bravo): interessante. E sono decenni che Cuocolo e Bosetti ce la fanno. Come ieri: mentre uno diffondeva preziosi elementi fotografici quotidiani, familiari e stilisticamente raffinatissimi attraverso un retro proiettore e un beamer, l’altra raccontava la storia (di Munro) di questa moderna Sherazade in grado di salvarsi la vita con il potere e l’astuzia di cui certe sequenze di parole sono insospettabilmente intrise. Un episodio di violenza messo in bocca, una piccola bocca femminile già sofferente perché alle prese con un lessico (prima poco familiare) legato al cancro, alle terapie, alla fine, sua o del marito, o dell’amante, ma comunque sempre morte è. Un momento di violenza amplificato non certo dalle cuffie, ma dalla bravura di Bosetti nel rincorrere una quotidianità interpretativa, una normalità stilistica (pure restituendo, ovviamente, il testo di Munro nella sua grandezza). L’articolazione di questo scambio violentissimo e subdolo fra un uomo e una donna irrobustisce una certa confusione cui lo spettatore (anche nella vita) è inevitabilmente confrontato: ma chi è il cattivo, qui? Sarà mica solo lui. E lei, la vittima, è proprio un’anima santa oppure annovera qualche graffietto sul carapace immacolato con cui si affaccia a noi? Lunghi applausi, meritati, che vanno ad aggiungersi ai numerosissimi premi internazionali conquistati nel corso di una già lunghissima, un po’ anomala, carriera.
Margherita Coldesina