Pavese con dottorato ad Harvard – dove ha poi insegnato per anni –, saggista di fama, considerato dall’Economist un papabile futuro Premio Nobel per l’Economia già nel 1990, Alberto Alesina è morto ieri prematuramente all’età di sessantatré anni a causa di un attacco cardiaco. Italiano apprezzato nel mondo, figura internazionale e prestigiosa, accademico ed economista, dal 1986 faceva la spola da un capo all’altro dell’Atlantico accolto nelle università statunitensi, così come la Bocconi, dove era visiting professor. I suoi studi e lavori erano in campo economico, ma immancabilmente l’accademico riusciva a conciliare questi ultimi con la scienza politica, tanto che alcuni osservatori lo definirono il padre della political economy.
Esperto di macroeconomia, scriveva tra le altre cose di industria, welfare, Europa: in maniera chiara e semplice. Comprensibile per migliaia di lettori che, tra gli altri autorevoli vettori mediatici che ospitavano i suoi puntuali interventi, lo leggevano dalla prima pagina del Corriere della Sera dalla fine degli anni Novanta. Sempre attento alle dinamiche culturali e sociali degli aspetti che toccava quando esaminava la materia economica, Alesina è oggi ricordato da molti con affetto e stima per la sua umanità e capacità di sbrogliare l’intricata matassa delle tematiche macroeconomiche, dove politica e geopolitica si mischiano alla scienza sociale dell’allocazione delle risorse.
Amico di lunga data di Francesco Giavazzi, con l’altrettanto rinomato professore bergamasco ha scritto numerosi saggi ed articoli – da rileggere il pamphlet provocatorio Il liberismo è di sinistra, uscito nel 2007 – fino a costituire il binomio “Alesina e Giavazzi”, che in Italia non è passato mai inosservato negli ambienti economici e politici. Attesissimi difatti gli illustri editoriali della coppia bocconiana sul Corriere: ai tempi del governo guidato da Mario Monti – già rettore della Bocconi dal 1989 al 1994 – i due professori esternarono a più riprese i problemi legati a troppe tasse a fronte di poche serie sforbiciate alla spesa pubblica (la cosiddetta austerità negativa). Ed è proprio a questa che, con Carlo Favero, Alesina e Giavazzi, hanno dedicato il libro Austerità. Quando funziona e quando no (Rizzoli, 2019, prefazione di Ferruccio de Bortoli, che ebbe l’idea di fare scrivere in coppia i due economisti).
Sostenitore della controversa “austerità espansiva” – misura impopolare –, Alesina non risparmiava le critiche costruttive al sistema-Italia: dalle immense voragini del debito pubblico causato anche dalle distribuzioni a pioggia di danaro pubblico, fino alle pensioni anticipate quando la vita media degli individui si allunga. «I deficit vanno compensati con attivi di bilancio quando l’economia va bene […] Un Paese con un alto debito, posseduto in parte significativa da investitori esteri, non può usare il deficit per evitare o attenuare una recessione» (Corriere della Sera 29 settembre 2019). Alesina conosceva bene il Belpaese; lo vedeva dall’estero: le sue analisi economiche non presentavano tratti populistici o demagogici nell’era del nazionalismo e della demagogia montante. Alesina aveva studiato troppo per non sottolineare le contraddizioni e i disastri economici nel lungo termine di certe politiche fiscali o commerciali, tra le altre. In Italia e nel mondo.
Alberto Alesina conosceva bene le logiche della scienza economica; non poteva dunque essere vicino all’odierno populismo, le cui ricette economiche – da destra e sinistra – causano gravi danni agli stati, dunque ai cittadini. In uno dei suoi ultimi fondi a quattro mani con Giavazzi (Corriere della Sera 22 aprile 2020) si chiedeva (e al contempo ammoniva): «Come può l’Italia minacciare di uscire dall’Europa e dall’Euro? Che cosa succederebbe se fossimo da soli? La liquidità dovrebbe fornirla la Banca d’Italia, e una Lira non ancorata all’Euro si svaluterebbe […] Gli investitori esteri fuggirebbero spaventati dal rischio svalutazione, gli italiani, a meno che non glielo si impedisca per legge, investirebbero in euro e dollari. I nostri titoli perderebbero valore e i tassi sul debito pubblico schizzerebbero.» Chiaro, semplice. Aspettiamo solo che alcuni politici lo capiscano prima che sia troppo tardi.
Amedeo Gasparini
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