La grigia stagnazione piccolo-borghese di una famiglia americana nella grande crisi del primo dopoguerra, così come raccontata dal capolavoro di Tennessee Williams, Lo zoo di vetro, è rivisitata dal giovane Leonardo Lidi, alla ricerca anche di sperimentazioni e giochi ad effetto originale, utilizzando proprio il contrasto di colori pastello e squillanti, di trucco, costumi e fisicità clowneschi che restituiscono un’astrazione stilizzata. Tra gli scarni arredi di scena, una panchina, delle sedie, un tavolino, si staglia la sagoma rosa di una casa (abbozzata come in un disegno infantile), simbolo e prigione, luogo di speranze morte, di sogni irrealizzati, di ricordi malinconicamente consolanti, di fughe disperate. Su questa parete, ad un certo punto della rappresentazione, raccogliendo del resto un suggerimento dello stesso autore (di adoperare uno schermo), verrà proiettato il filmato di un Topolino d’epoca alle prese con la casa stregata. Forse inutile renderla così lunga ed esplicita. Ma l’allusione è anche al cinema molto evocato in questa opera.
La dichiarata teatralità del dramma che fa di uno dei quattro personaggi, Tom (qui Tindaro Granata), il commentatore e in un certo senso il regista, è portata all’estremo, mentre sono interpretate alla lettera frasi come “vi offro la verità sotto il manto piacevole dell’illusione”. Trucchi e inganni come quelli che s’inventano i tragicomici pagliacci. Tom è il poeta sognatore ridotto a lavorare in un magazzino e, quindi, appare nelle vesti di Pierrot; nasi rossi, scarpe fuori misura, deformazioni esageranti anche per gli altri. Più contenuta, discreta la figura di Laura (Anahì Traversi), la sorella di Tom, leggermente claudicante ma soprattutto affetta da una patologica timidezza che la porta a rifiutare il mondo e a rinchiudersi in fragili fantasie di vetro. Sopra le righe ma fino a un certo punto l’ossessiva, petulante madre (Mariangela Granelli) che vorrebbe proiettare sui figli il riscatto della sua vita incompiuta, dell’abbandono del marito, di una monotona, mediocre infelicità domestica. Poi c’è Jim (Mario Pirrello), il visitatore, il personaggio più realistico (anche se con qualche gestualità esasperata), anonimo nella maglia e nei mutandoni bianchi, però come spesso capita in queste opere, è l’estraneo rivelatore e risolutore del dramma.
Le parole sono più o meno quelle, i dialoghi, le scene annunciate… Ma immerse in uno straniamento e spaesamento della distanza, filtrati dall’evocazione, così come gli oggetti simulati e invisibili, pranzi che non ci sono, candelieri inesistenti, anche l’unicorno, quella statuina di vetro emblematica del sotteso discorso sul valore della diversità e dell’unicità, è affidato all’immaginazione. In alcuni casi la dialettica diventa un monologo, in altri (i litigi ad esempio tra la madre e Tom) le frasi, eternamente ripetute, raccomandazioni, lamenti, insofferenze, si sovrappongono e trascinano a creare l’eco di una esasperante memoria. Altre volte ci si rivolge direttamente alla platea indicandola come parte di quell’umanità, di quella società che, così come l’ha descritta Williams, nei difetti, nei suoi patimenti sentimentali e miserie, appartiene al presente di ogni epoca, all’universalità di ogni tempo.
Il clownesco può essere un escamotage come tanti per sorprendere, ma quando le parole hanno questa forza del racconto restano intatte nei contenuti anche se, per partecipare fino in fondo a questa decostruzione, occorrerebbe conoscere l’originale e l’origine. Altrimenti certi passaggi andranno persi.
Ad effetto anche l’ultima sequenza, quando una scossa, una sorta di terremoto, fa cadere la casa-parete e butta all’aria il tappeto di ghiaia davanti alla pedana della scena… La pièce debuttò nel 1944 a Chicago, nel frattempo c’era un’altra guerra, proprio quella che a ritroso l’autore-Tom (autobiografico è il dramma) vedeva come l’esperienza, l’“avventura” necessaria a riscattare l’immobilismo, l’atrofizzazione della vita borghese. Una scossa che avrebbe cambiato il mondo.
Anahì Traversi dà la giusta dimensione alla gestualità delicata della sua Laura, senza risultare evanescente; Mariangela Granelli se, all’inizio, si esprime in un eccesso di esuberanza che rischia la caricatura, nel seguito, pur in un impianto non realistico, assume invece la convincente naturalezza di una madre possessiva, soffocante ma per troppa infelicità; il Tom di Tindaro Granata ha momenti un po’ deboli, poco incisivi, ma si riscatta nel finale; buona l’espressività di Mario Pirrello, l’uomo dallo scatolone (l’unico oggetto ingombrante) che serve a nascondere nel gioco d’identità (Laura scopre in lui un ragazzo che le piaceva), ma usato anche per rompere concretamente e metaforicamente le illusioni contenute nell’unicorno.
Lo spettacolo, coprodotto da LuganoInScena con il Teatro Carcano e TPE, Teatro Piemonte Europa, in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina, ha debuttato con successo in prima assoluta ieri al LAC, davanti ad una folta platea. Si replica questa sera e da Lugano partirà la tournée italiana.
Manuela Camponovo