Cultura

«Attenzione all’uso approssimativo delle parole»

Natascha Fioretti

“L’italiano e la rete, le reti per l’italiano” è il tema della  XVIII edizione della Settimana della Lingua Italiana nel mondo che quest’anno si celebra dal 15 al 21 ottobre. Organizzata dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale insieme all’Accademia della Crusca, alla Società Dante Alighieri e con il sostegno della Confederazione elvetica, la Settimana è divenuta nel corso degli anni l’appuntamento più importante dedicato alla promozione della lingua italiana all’estero, con centinaia di iniziative sparse in tutto il mondo. Il tema scelto per questa edizione è duplice: da un lato si analizza la rete, ossia il ruolo di internet e dei social media nelle trasformazioni fisiologiche che la nostra lingua sperimenta e come strumento per una sua ulteriore diffusione, dall’altro si passano in rassegna e si valorizzano le “reti fisiche” che lavorano quotidianamente alla diffusione dell’italiano nel mondo. Noi ne abbiamo parlato con Alessio Petralli linguista da sempre attento alla dimensione sociale della lingua fra locale e globale, ai linguaggi dei media vecchi e nuovi e membro di Incipit, un gruppo formatosi presso l’Accademia della Crusca di Firenze nel quale studiosi e specialisti della comunicazione monitorano i neologismi e forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e ne propongono degli equivalenti e delle alternative agli operatori della comunicazione e ai politici, con le relative ricadute sulla lingua d’uso comune.

La Rete fa bene all’italiano?
«È una domanda determinante, ci sono pessimisti e ottimisti, apocalittici e integrati a riguardo. Personalmente sono dell’avviso che faccia del bene perchè permette forme di comunicazione che prima erano impensabili. Per esempio a chi ama l’italiano in Italia e nel mondo la Rete permette di dibattere di tanti temi ma soprattutto di far capo a tanti strumenti tradizionali che oggi sono presenti anche online. Penso al sito dell’Accademia della Crusca oppure al portale del sapere Treccani che diffondono cultura notevole a piene mani e rappresentano una ricchezza eccezionale alla portata di tutti».

La Rete però ha portato anche molti cambiamenti e non tutti positivi, cosa ne pensa?

«Bisogna vedere cosa ha cambiato la Rete dal punto di vista comunicativo e qui il discorso diventa più complesso. Grazie ai nuovi metodi c’è stato un accesso alla scrittura che non si sarebbe potuto prevedere, anzi, si prevedeva tutto il contrario. Qualche decennio fa si diceva ‘nessuno scrive più’ e adesso invece scrivono tutti. Anche qui bisogna vedere come scrivono ma è un dato di fatto che oggi scrivono persone che non avrebbero mai scritto altrimenti e questo di per sé è un bene. È un po’ come il discorso di quelli che criticano i giovani perché leggono il gratuito 20 Minuti: si può criticare finché si vuole ma se un giovane legge 20 minuti è senz’altro meglio di niente e magari in futuro considererà anche altre testate. Un altro aspetto da considerare, e qui bisogna fare attenzione, è la tendenza nata con la Rete a privilegiare il simultaneo al sequenziale, l’immagine alla parola scritta. Il sequenziale richiede più attenzione e fatica mentre il simultaneo in modo rapido permette di  affastellare informazioni e immagini e non sempre è un bene».

Uno dei luoghi comuni è quello di credere che la Rete promuova la brevità dei testi e dei messaggi. È d’accordo?

«In realtà, direi è vero il contrario. Se guardiamo bene, i testi brevi non finiscono mai, sono sempre aperti e hanno la particolarità di promuovere l’aspetto dialogico, di per sé molto positivo, se non fosse che spesso porta fuori strada, sposta l’attenzione e fa perdere di vista il testo del quale si sta dibattendo. A questo proposito mi viene in mente una cosa che ha detto Michele Serra che mi è molto piaciuta. Si riferiva ai commenti che aveva suscitato un suo testo. Una moltitudine di  commenti che però non riguardavano quello che aveva scritto ma l’eco dei commenti e delle voci  scaturite dentro ai quali il testo, alla fine, scompariva completamente. E ha ragione Serra, in questo caso, a parlare del prevalere del caotico e mostruoso contesto del chattismo compulsivo, così compulsivo da far perdere il filo del discorso.  In conclusione dice anche che le parole sono troppo importanti perché se ne possa fare un uso cosi approssimativo. Questo è un grosso pericolo del nostro tempo, fare un uso approssimativo delle parole perché non si legge e non ci si prende la briga di approfondire».

Un altro dei pericoli ai quali spesso si fa riferimento è lo scadimento della lingua nell’uso che se ne fa sui social e nei messaggi usando abbraviazioni, emoticon e via dicendo. Cosa ne pensa?

«Le abbreviazioni ci sono sempre state e sono molto utili, ti fanno risparmiare tempo e fatica. E se nei messaggi si usa la k al posto del ch non ci vedo niente di male. Anche il primo testo in italiano *’Sao ko kelle terre’ è pieno di k. Poi è chiaro, nel momento in cui si passa ad un altro mezzo o strumento di comunicazione, si deve curare  l’ortografia e tutto il resto».

La tecnologia e la Rete hanno introdotto anche molti anglicismi nella lingua italiana e questo a ritmi vertiginosi. Come ci si deve comportare dinanzi a questo fenomeno ed è un bene o un male per la lingua?

«È inevitabile visto che gli inventori di internet sono stati loro e quindi si portano appresso anche tutta una serie di tecnicisimi che non si possono evitare e in molti casi sono utili e precisi . Il problema è che una lingua dovrebbe essere forte e vivace e al tempo stesso in grado di accogliere questi prestiti trovando però subito anche un equivalente efficace e parole  corrette per declinarli in italiano. Ha ragione Luca Serianni quando dice che ‘il neologismo bisogna ucciderlo nella culla’ nel senso che – o la lingua ha la capacità di proporre velocemente un equivalente efficace – oppure poi è molto difficile.  A questo proposito cito il gruppo Incipit formatosi presso l’Accademia della Crusca, di cui faccio parte, che si preoccupa proprio di lavorare in questo senso. Prendiamo ad esempio l’equivalente di whistleblower, parola che mi infastidiva molto perché è difficile da pronunciare, del tutto opaca, originariamente americana, che significa  soffiatore nel fischietto. Discutendone in questo gruppo, dopo varie riflessioni  è venuta fuori la proposta di allertatore (civico), appoggiato dal francese lanceur d’alerte e dallo spagnolo alertador. In realtà gli anglicismi per la lingua italiana possono essere forieri di nuove parole e  una lingua vivace come l’italiano deve saper accogliere gli stimoli esterni ma poi essere anche in grado di adattarli bene, velocemente e in maniera precisa».

*Per l’italiano il testo che tradizionalmente viene considerato il primo documento scritto in volgare è rappresentato dalle formule testimoniali note come Placiti di Capua (960-963), relative alla proprietà di alcune terre rivendicate dall’abbazia di Montecassino, che tramite l’abate Aligerno fa valere a proprio favore, vincendo la causa, il principio dell’usucapione. Il più antico è del marzo 960 e recita: «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti»; cioè «So che quelle terre entro quei confini che qui (nel promemoria che reca i dati della vertenza, tenuto in mano dai testimoni) sono contenuti, le ha possedute per trent’anni la parte (la persona giuridica) di San Benedetto».

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