Storia

«Cacciateli!», paura e intollerenza verso gli italiani in Svizzera negli anni Sessanta

«Ci fanno sentire stranieri in patria», «loro avranno il lavoro e noi no», «sono troppi», «ci sfrattano per dare la casa a loro», «se scorgono una donna sola diventano appiccicosi come cimici», «non si affitta a cani e italiani». Il risultato è questo quando dilagano l’intolleranza e la paura. È quanto accadde negli anni Sessanta a una certa Svizzera, attraversata dal clima di odio per il forte aumento di lavoratori del Belpaese, non molto diverso dalla reazione provocata in questi anni dall’arrivo via mare della moltitudine di disperati in fuga da guerre e povertà.

Come capita puntualmente, la preoccupazione che si diffuse negli strati sociali della Confederazione trovò un leader che cercò di cavalcare l’onda. James Schwarzenbach, esponente di una delle famiglie industriali più ricche del paese, entrò in Parlamento, unico deputato dell’Azione Nazionale, partito di estrema destra, e con lo slogan «Prima gli svizzeri» lanciò un referendum per espellere gli stranieri che fallì per poco. In quello sterminato gruppo di “diversi”, c’erano i genitori del giornalista Concetto Vecchio, che a questa pagina amara di storia sociale tricolore dedica Cacciateli! Quando i migranti eravamo noi.
L’autore, nato ad Aarau nel Canton Argovia da genitori siciliani, parla di un argomento che ha vissuto sulla pelle. Il suo cammino a ritroso parte da una sua visita recente a Zurigo dopo tanti anni. Si rivede bambino al ritorno dall’asilo con la mamma Giuseppa che gli raccomanda: «Non facciamoci riconoscere dagli svizzerazzi, sennò arriva Schwarzenbach». Il puzzle di ricordi si ricompone con il racconto dei genitori e l’aiuto di articoli di giornale e spezzoni di inchieste tv sui braccianti e sugli operai che prima dal settentrione e poi, in maniera ancora più massiccia dal sud, invadono la Svizzera.

È una storia di baracche in cui si vive in condizioni pietose, di privazioni e segregazione, di stagionali lontani dalle famiglie perché i ricongiungimenti venivano ostacolati, di bimbi fatti passare alla dogana nascosti nel bagagliaio di un’auto e tenuti reclusi in casa.
All’inizio le braccia italiane erano viste come una ricchezza. Dal 1946 al 1968 espatriarono in Svizzera due milioni di italiani. I due Paesi avevano firmato un accordo: la Svizzera accoglieva i lavoratori di cui l’Italia si liberava perché non c’era occupazione per tutti. La paura era che – finito il boom – migliaia di stranieri restassero disoccupati. Il padre Carmelo racconta al figlio che emigrò nel 1962, anno in cui in Svizzera arrivarono più di 143 mila italiani. Lì conobbe Giuseppe, che era partito l’anno prima con lo zio.

Schwarzenbach accettò nel 1967 la candidatura al Parlamento che per l’Azione Nazionale. Qualche anno prima aveva tentato senza successo la corsa al Parlamento Albert Stocker, fondatore di un partito contro gli italiani, che bollava come portatori di malattie, potenziali delinquenti, «cattivi soldati e tutti rossi», figli di un paese che «moralmente è una fogna». Il paradosso è che una prima proposta, bocciata, di un referendum per ridurre il numero dei lavoratori stranieri era stata del Partito Democratico. Gli stessi sindacati volevano mettere un limite. L’odio cresce, nascono i comitati contro i matrimoni misti. Nel 1967 i lavoratori italiani sono quasi 700 mila in una Svizzera che ha cinque milioni di abitanti. Alcuni temono che somme enormi di franco svizzero finiranno in Italia per pagare le loro pensioni. Schwarzenbach lanciò nel 1968 un nuovo referendum contro la manodopera straniera. Si votò il 7 giugno 1970. Se avesse vinto il sì in quattro anni 300 mila persone, per lo più italiani, sarebbero state espulse. «Non sono xenofobo – assicurò – mai pronunciata una parola contro gli italiani. Non prendetevela con i lavoratori stranieri ma con chi li ha chiamati qui». Poi a un giornalista confessò: «Il problema si è aggravato con l’arrivo dei meridionali, con gli immigrati del nord le differenze culturali non si notavano particolarmente».

Eppure, dopo la lunga e documentata descrizione di soprusi, umiliazioni, discriminazioni e pestaggi, il libro si chiude in modo inaspettato. La storia di migliaia di italiani che lasciarono case, affetti e amici in cerca di lavoro e fortuna affrontando mille difficoltà, l’ostilità e i pregiudizi di un paese straniero, letta con la consapevolezza di come per molti si è poi risolta concretamente, può riservare davvero un altro finale. (Fonte: ANSA, ricerche proprie).

In cima