Cannibali e necrofili
Un sabba infernale e rivoltante. Lo spettacolino della sinistra, che balla sul cadavere di una giovane vittima di femminicidio per riesumare i suoi slogan. La danza macabra di chi volteggia, con così poca grazia, sul tema della violenza di genere per poi buttare di tutto e di più nel calderone della causa progressista. La marcia lugubre dei cannibali del dolore che lo scorso 25 novembre hanno calcato le piazze di tutta Italia per sventolare i loro manifesti ideologici.
Il diavolo si annida nei dettagli. Le danze si sono aperte con l’accusa rivolta al vicepremier Matteo Salvini di dubitare della colpevolezza di Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin, «perché bianco» e «di buona famiglia». Parole della sorella Elena, rivolte al Ministro dei trasporti, reo di aver twittato: «se colpevole, nessuno sconto di pena e carcere a vita». Quel se “garantista” ha infiammato anche l’illustre ospite del salotto di Nicola Porro: l’attivista Valeria Fonte, la mente dietro al post virale «è stato il vostro bravo ragazzo». Una che, parole sue, «ci mette il culo», su Instagram, social in cui troviamo una summa dei suoi raffinati ragionamenti sulle «narrazioni tossiche». Se già ci aveva deliziato con la massima «L’Italia tutta è razzista», scopriamo sulla sua pagina che gli uomini sono «colpevoli sempre, colpevoli tutti, fino a prova contraria». Illuminazione sciorinata anche nella puntata del 20 novembre di Quarta Repubblica, dove Fonte ha chiarito che «chi dice che non è parte del problema è un criminale» e, sulla falsariga di Elena Cecchettin («il femminicidio è un omicidio di Stato»), che «la politica italiana è criminale tutta», ma soprattutto «la politica di destra» – la precisazione, in questo caso, stranamente pareva importante farla. Il femminicidio «ha una matrice culturale, che è il patriarcato», sbraitava dallo studio Mediaset; «tornare a casa è un privilegio in un paese che non riconosce le sue colpe», scriveva ancora su Instagram di ritorno dalla grande adunata del 25 novembre. «A te, uomo bianco cis di mezza età che ci vedi: inizia ad avere paura», risponde va al suo post un utente. «Urlalo, sorella», commentava a sua volta Valeria Fonte.
Urla, schiamazzi, rumore. Sulla scia della poesia di Cristina Torres Cáceres («se domani sono io, se domani non torno, distruggi tutto») ripresa da Elena Cecchettin («Per Giulia non fate un minuto di silenzio, bruciate tutto»), gli studenti di tutta Italia, il 21 novembre, hanno “boicottato” il minuto di silenzio per Giulia e più di 500mila persone, nella Giornata contro la violenza di genere, si sono unite al «minuto di rumore» indetto da Non una di meno, da Milano a Roma. In queste «passeggiate arrabbiate e rumorose» si è levato «il grido altissimo e feroce» di tutte quelle donne che non hanno più voce e sono anche riecheggiati gli stantii slogan della «marea fucsia», che già nel suo appello si dichiarava contro la «violenza patriarcale», ma anche contro la cancellazione del reddito di cittadinanza, l’escalation bellica, la famiglia tradizionale, e (perché no?) il capitalismo neoliberale. Senza dubbio delle piazze non «neutre»: basti guardare la locandina del raduno, dove campeggiava in bella vista “Palestina libera” e non una parola sulle violenze di Hamas – ragion per cui molte donne, femministe comprese, (tra le quali la giornalista Daniela Hamaui, la politologa Francesca Izzo e la scrittrice Elena Loewenthal) si sono sentite escluse dal corteo, pur partecipando, o hanno scelto di non scendere in piazza. Un tema unificante, quello della violenza di genere, che è diventato, volutamente, divisivo.
L’orrore per la vita. La voce delle donne è stata così sovrastata da urla farneticanti e slogan sguaiati – su tutti quel volgare «Voi Pro Vita, noi Pro Vibra» sventolato fuori dalla sede romana di Pro Vita e Famiglia, vandalizzata da scritte mortifere e violente («Morite, scegliamo aborto libero», «Bruciamo i Pro Vita») e su cui sono stati scagliati fumogeni fucsia e bottiglie di vetro, tra cui un ordigno esplosivo, su cui sta indagando la Digos. Detto che questo blitz ha visto la partecipazione di 200 persone su migliaia – e che nella stragrande maggioranza erano presenti per manifestare la loro solidarietà alle donne vittime di violenza, e non per strillare slogan politici –, questo distinguo non si può fare per Non una di meno. Basti vedere il festoso rilancio, sulla sua pagina Facebook, del manifesto, corredato dal commento «abbiamo sanzionato la sede di ProVita&Famiglia, espressione del patriarcato becero e anti-scelta».
Una di meno. Si può ancora dire che Dietro Elena (non) ci siam tutte? Era questo il sibillino titolo della scrittrice Michela Marzano sulle pagine di la Repubblica del 21 novembre, dove naturalmente buttava nel mezzo della discussione anche il famigerato «maschio-alfa-bianco-etero». È lecito affermare che con Giulia “ci siam tutte” ma non con la propaganda politica che tanti, troppi, portano avanti dietro lo “scudo” di Elena? È concesso essere “femministe” senza avere quest’odio viscerale e patologico per gli uomini, senza provare orrore per la vita e senza recitare un copione infarcito di parole d’ordine?
Silenzio. In mezzo a tanto rumore, vociare e straparlare, forse sarebbe stato utile un momento di riflessione. Mi chiedo se al di là della bella metafora di “dare voce a chi non ce l’ha più” non si nasconda la voglia di gridare a tutti i costi, facendosi imbeccare dall’ideologia di partito. Mi domando se non ci sia un filo rosso, tra le varie proteste animate dalle nuove generazioni (vedasi gli ecovandali o gli universitari delle tende), generalmente riluttanti al dibattito e perennemente strillanti. Ho il dubbio che, «quasi per riflesso involontario», come cantava Gaber, «vi agitate, continuate ad urlare». Non sono così certa invece che la soluzione sia criminalizzare l’intero genere maschile, o se piuttosto trasformando i carnefici in vittime della cosiddetta «cultura dello stupro» venga meno la responsabilità individuale. Di sicuro, per certi esseri sinistri, capaci solo di sfregarsi le mani come mosche alla vista delle tragedie, vale ancora il monito del grande cantautore, rivolto a quei «cannibali» e «necrofili» che si buttano «sul disastro umano col gusto della lacrima in primo piano».
Lucrezia Greppi