I turisti sono andati in vacanza mentri i viaggiatori hanno fatto qualcos’altro. Hanno viaggiato (Alex Garland).
Capita quando si è in un paese straniero di fermare qualcuno per chiedere delle informazioni, sul nome di una strada, su un indirizzo, un museo… Una volta, capitava pure d’imbattersi proprio in uno straniero oppure anche in una persona del luogo che non sapeva rispondere e allora non restava che rivolgersi ad altri passanti. Oggi, nove volte su dieci, soprattutto se si è in una nazione di gente gentile e servizievole (lo sono i britannici e anche i turchi ad esempio, più scorbutici i francesi…), il nostro interlocutore dirà che non sa però consulterà immediatamente il suo cellulare e vedremo esaudita la nostra richiesta. Quegli strumenti demoniaci quindi possono essere utili. Ma quando si esagera, si esagera.
Ormai troviamo sempre più spesso turisti che camminano con la faccia affondata nello schermo, non si guardano più attorno, non vedono più nulla di fisicamente “reale”. Giapponesi e non solo. Poi, quando si trovano di fronte ad un monumento, iniziano a fotografare compulsivamente e se ne vanno. Non spostano gli occhi, non conoscono, non capiscono: possedere l’immagine per loro è più che sufficiente. Un giorno tutti avranno degli occhialini di realtà aumentata o virtuale che daranno i dati storici, geografici necessari e faranno vedere magari come era Roma al tempo di Giulio Cesare. Ma allora perché non restarsene a casa a guardarsi un bel documentario, che bisogno c’è di viaggiare? Non è questo il modo. Io rifiuto anche l’audioguida, se non assolutamente indispensabile. Cerco d’informarmi prima, ma quando sono sul posto voglio immergermi nell’atmosfera con i miei sensi allertati (almeno tre: non sempre si può toccare e il gusto è riservato semmai al cibo…). Mi guardo attorno, cerco di assorbire la visione. La fotografia viene dopo. Fornisce a volte dettagli che ad occhio nudo sfuggono ma a patto di coadiuvare la propria vista, non di sostituirla.
La frenesia dei cellulari sempre più sofisticati distorce l’esperienza del viaggio, la rende uno stereotipo. Quando si torna, si potrà mostrare la carrellata di scatti, ma si resterà muti nella narrazione, perché si avrà delegato il racconto alla tecnica che è importante se si riesce a dialogare con essa ma non a sostituirla alla propria umanità. Questa si costruisce attraverso emozioni, sentimenti anche conoscenze ma non quelle informatiche. Natura, clima, uomini, manufatti sono lì, da vivere. Con il telefonino per un po’ di tempo lasciato in borsa o nelle tasche. Per favore. Ed evitiamo lo spasmodico egocentrismo di un selfie. Per cosa? Per dimostrare di esserci stati? Nulla potrà sostituire presso gli amici un appassionato, vivace, resoconto. Provare per credere.