Ogni giorno nella lunga e perdurante emergenza in atto si alza un più che giustificato lamento. Molti o quasi tutti hanno ragione, al punto che non si sa da che parte cominciare con le risposte che pure si impongono. Non ci si può limitare a imporre divieti, clausure forzate, precauzioni che possono spingere fino all’ossessività, tra deserti urbani che si estendono. In Italia sono state introdotte le zone rosse, arancione e gialle in base alla gravità del contagio, con differenti normative. Si è come dentro una selva di interrogativi che si rincorrono e sovrappongono, nell’incertezza che detta legge. Un quesito dominante è sull’avvicinamento al Natale, con risposta delegata all’andamento del picco dei positivi al tampone (o al sierologico), dei ricoveri, delle guarigioni e, purtroppo, dei decessi che stanno superando anche le curve stabilite in primavera. Allora c’era l’attenuante che si doveva reagire a un’offensiva arrivata a sorpresa (giustificazione che tiene fino ad un certo punto) e che pertanto aveva trovato l’artiglieria di difesa impreparata. Troppi hanno pensato che il virus tuttora largamente sconosciuto se ne stesse lontano dalle nostre latitudini, confinato nella culla dove è nato, cioè nel subcontinente cinese. Si è saputo proprio di recente che il “coronavirus” era attivo già in settembre; facciamo pure una tara di calendario, ma sono passati comunque dei tempi lunghi, si sono accumulati ritardi – generali, in Europa – inescusabili. Dall’Epifania in poi, quando la marcia d’avvicinamento dalla Grande Muraglia è partita, si sono avuti due mesi utili per alzare argini difensivi. L’illusione di essere al sicuro si è protratta fino al 20 febbraio, quando da Codogno è suonata la sveglia. Dal 7 marzo in poi si è corso finalmente ai ripari, con provvedimenti a cascata, dall’Italia – primo avamposto di propagazione – ai vari Paesi in Europa, che hanno avuto qualche ulteriore vantaggio di tempo rispetto alla penisola.
Impreparati all’ondata di ritorno dopo un’estate “no limits”
La primavera del confinamento si è estesa fino a maggio. L’estate ha portato in dono la fallace, e tragica, convinzione che il peggio fosse alle spalle, il virus in forte perdita di aggressività, e quindi si potesse tornare alle vecchie e rimpiante abitudini. Si sono infoltite le file dei disinvolti che hanno rivendicato le vacanze come un diritto intoccabile: e avanti con spiagge affollate, discoteche, movide, naturalmente con viaggi su aerei o treni o traghetti. Importante era partire.
Invece di predisporre una strategia almeno difensiva dall’ondata di ritorno, che era da mettere nelle probabilità, si sono viste folle inebriate dall’idea delle vacanze come s’era abituati a fare.
Senza dover per forza pensare a strateghi collaudati e con capacità di vista lunga, in Italia si è temporeggiato, contenti che a settembre i ragazzi e i giovani potessero dire addio alla didattica a distanza, tornando a quella dal vivo, in classe. Nella sanità, come si era retto l’urto della prima bufera, si sarebbe fronteggiato anche un’eventuale seconda. E ci si è seduti sugli allori. Esopo è sempre d’attualità, la favola della cicala e della formica tiene banco. Chiunque, anche la famosa casalinga di Voghera, avrebbe considerato qualche contromisura: la prevenzione è riconosciuta come la più efficace terapia.
Si era sperimentata, in termini drammatici, la carenza di medici specialisti. Lo si sapeva da dieci anni, la “covid” ha fatto saltare il coperchio, ma non si è voluto tener conto delle evidenze comprovate. E la sanità è collassata un po’ dappertutto con la nuova impennata. Corse generali ai tamponi, ambulatori medici sotto pressing costante di persone ansiose, preoccupate al primo sintomo di possibile covid, di nuovo cupi suoni di sirene, lunghe file di ambulanze con malati a bordo, in attesa di un letto per il ricovero in ospedale… Così è stato dal Piemonte alla Campania, dalla Lombardia alla Calabria, dove pure si è consumata la tragicommedia dei Commissari speciali per la Sanità, settore che assorbe il 70% del bilancio regionale (e il commissariamento si protrae da quasi 13 anni);
- Si poteva/doveva pensare al potenziamento dei mezzi di trasporto. Considerando che per motivi prudenziale era stata dimezzata la potenzialità a bordo dei mezzi pubblici, c’era la valvola di sicurezza dei privati ai quali far capo, così da abbassare l’assembramento lavoratori-studenti, soprattutto al mattino;
- il sistema scolastico si è concentrato sulla progettazione/fornitura dei banchi a rotelle, diventati una favola globale, con puntuale ritardo nonostante le sbandierate assicurazioni che sarebbero stati pronti alla riapertura dell’anno. Sarebbe stato preferibile spalmare l’orario scolastico – negli agglomerati urbani – su 2 o anche 3 turni di presenza, lasciando in chiusura di giornata gli studenti di città, serviti dai mezzi pubblici fino a tardi. In tal modo si sarebbe evitata in larga misura la didattica a distanza, con tutte le note controindicazioni sul piano dell’istruzione e della socializzazione. Semmai le videolezioni si sarebbero dovute limitare agli studenti delle superiori. Facendo di necessità virtù, la “scuola da casa” è stata applicata addirittura a partire dalla seconda media in alcune regioni;
- sempre nel pubblico, gli orari per i cittadini agli sportelli erano facilmente estensibili dal primo mattino fino a sera, con adeguati turni per il personale, così da evitare anche qui le resse.
“Recovery Fund”: 209 miliardi di euro dell’UE attendono un piano d’investimenti
Il nodo più grosso e duro da tagliare, però, è stata e rimane la messa a punto di un “piano Marshall” per fronteggiare le conseguenze del cataclisma e spingere sull’acceleratore della ripartenza. Ci sono i 209 miliardi di euro dell’UE (Recovery Fund o fondi di recupero) che bisogna sapere come e dove spendere, non certamente con mancette qua e là o sovvenzionando campagne per monopattini o biciclette. La Germania fa, l’Italia discute. Il governo va avanti con i “decreti del premier”, di cui si è perso il conto, e con le divisioni interne tra PD e M5S che riempiono le cronache dei notiziari. E mentre infuria la tempesta virale, a Roma la classe politica si occupa di riforma della legge elettorale.
Quando fu varato il Piano Marshall con gli aiuti dell’America – che furono decisivi – per la ricostruzione dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, curiosamente si opposero i comunisti, sia in Italia che in Francia, più portati a mettersi nelle braccia di Stalin. Anche adesso, con altri soggetti politici dentro e fuori il governo, c’è chi prova l’orticaria per gli aiuti dell’UE e per la possibilità di attingere ad altri 37 miliardi in prestito con il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) da impiegare nel disastrato pianeta sanitario della Repubblica. E qui c’è la rigidissima opposizione dei 5 Stelle, ai quali fanno da spalla la Lega di Salvini e i Fratelli d’Italia della Meloni, che si dissociano dall’alleato Berlusconi che invece è a favore.
“Il virus tende alla divisione”, serve una scossa alla classe politica
Mentre il killer globetrotter continua la sua devastazione, dalla parata incessante dei mezzobusti che popolano la televisione in continuità, arrivano appelli all’unità, alla convergenza degli intenti, al remare insieme e non in ordine sparso, a coagulare le diverse sensibilità politiche. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella non perde occasione per lanciare i suoi richiami.
Aprendo in videoconferenza i lavori della XXXVII assemblea dell’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani, che sono 7300) ha detto che «dobbiamo far ricorso alle nostre capacità e al nostro senso di responsabilità, per creare convergenze e collaborazione tra le forze di cui disponiamo perché operino nella stessa direzione. Anche con osservazioni critiche, sempre utili, ma senza disperderle in polemiche scomposte o nella rincorsa a illusori vantaggi di parte, a fronte di un nemico insidioso che può travolgere tutti». Un nobile appello, ma vedendo molto da vicino quanto succede e come si muove l’attuale maggioranza giallo-rossa forse sarebbe il caso di fare qualche passo oltre le parole. Non si può traccheggiare nei modi che si colgono, anche senza essere addetti ai lavori. D’accordo che il Presidente della Repubblica in Italia ha spazi d’azione precisi e vincolanti, ma ha anche un’autorità morale per alcuni fermi richiami a Conte e ai suoi ministri. L’occasione dei fondi europei non può essere messa a rischio per farraginosità progettuale, con distribuzione a pioggia, senza una visione, che è fondamentale. L’Italia sa benissimo di avere gli occhi puntati addosso, conoscendo l’atteggiamento critico dei “Paesi frugali” verso l’apertura dei rubinetti con i miliardi promessi. Se un governo deve stare in piedi a stento, puntellato dai promessi voti in soccorso di Berlusconi, sarebbe forse un dovere morale anche creare le premesse per un governo di unità nazionale all’altezza di un’emergenza epocale. Utopia allo stato puro o margini di praticabilità? In ogni caso, sarebbe almeno auspicabile un segnale di scossa.
Giuseppe Zois