Riflessione

Cromaticamente corretto

René Magritte, Le Pélerin, 1966. Fonte: Arthur.io

«Qualche volta metto il mio giaccone / gri­gioverde tipo guerri­gliero / e ci metto dentro il mio corpo / e già che ci sono anche il mio pensiero», cantava Gaber ne Il comportamento. Era il lontano 1976: nel frattempo, l’eskimo è stato sostituito da un «trench di taglio sartoriale color glauco». Parole dell’armocromista della segretaria del partito democratico italiano sulle pa­gine di Repubblica, a suggello degli scatti molto chic della leader apparsi su Vogue lo scorso 25 aprile: data ideale per chiarire le sue scelte di stile. La consulente d’immagine, si sa, è una figura di cui oggi proprio non si può far a meno, da Elly Schlein a Chiara Ferragni. Chissà se i numerosi e scrupolosi commentatori avranno sciolto quel dubbio che arrovellava milioni di spettatori: il maglioncino color pentimento era ca­suale o studiato ad arte? Di sicuro, il “pandoro gate” ha mostrato lo spessore di chi si ergeva a paladina di tante e moderne battaglie, che aveva inscenato, trave­stendosi, sul palco dell’Ariston. E avrà trovato pace l’articolista de Linkiesta, tormentata dalla domanda esistenziale “perché Giorgia Meloni ha smesso i co­lori pastello”? Qual è, si chiedeva, l’oscura ragione che ha portato la Presidente del Consiglio ad indossa­re il tailleur e non più la gonnella? Lapidaria la sentenza: il ventunesimo secolo non è pronto a un’I­talia guidata da «una donna che non si vesta come la Merkel»; è lì da vedere, «se vinci le elezioni in gonna a pieghe, allora il soffitto di cristallo è davvero sfondato», ma se poi la abbandoni nell’armadio, infrangi un sogno: «cambiare il dress code» nei pa­lazzi del potere. Fiumi d’inchiostro son stati versati anche per commentare le “sfumature” di Kamala Harris, dal bianco­suffragette al nero dei suoi tailleur (per lei, sinonimo di eleganza, per altre un tributo nostalgico), dal cappottino viola che simboleggia l’unione alla progressista giacca multicolor, sino agli outfit, udite udite, in colori pastello. Stai a ve­dere che anche in America non era­no pronti a questi cambi di look…

“Vestirsi è un atto politico”, ma anche sbiottarsi: tutto è politica, tutti sono così incredibilmente impegnati. Il corpo? Un manifesto da sbandierare e su cui lucrare. Niente di nuovo, quel che stupisce è la filosofia spicciola con cui si confe­ziona il banale e lecito desiderio di esibirsi. «Il corpo è parte fondamentale del modo di raccontarci», ci inse­gna la cantante Elodie, in occasione della sua ultima virtuosa impresa – la partecipazione al calendario Pi­relli 2025 – non risparmiandoci fini analisi politiche e dotte discettazioni psico­sociali. E fin qui, non si può che essere d’accordo: chi ha poco da dire, è meglio che si travesta o si denudi. Un pochino più stridente la massima «il corpo senza anima è niente», il j’accu­se, dell’eroina desnuda, a chi «lavora per gli interes­si degli uomini», e la speranza che le ragazze ca­piscano, grazie a lei, l’importanza della «bellezza inte­riore». È proprio da pazzerelle scoprire una coscia in un paese libero; il coraggio, quello sì, è di tirare in ballo i diritti delle donne, magari di quelle che se mo­strano una ciocca di capelli finiscono ammazzate o di quelle che veramente lo fanno come gesto di rivolta, quelle che lo hanno vissuto sulla loro pelle il vero, be­cero e violento patriarcato, e non hanno bisogno di ri­camarsi slogan su abiti scintillanti. Il nudo, macché: a dare scandalo sono certe menti vuote in cerca di un vestito per interpretare una parte e certi intellettualoi­di che trasformano personaggi da rotocalco in eroine e la politica in una sfilata di moda.

Lucrezia Greppi

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