Nel corso della sua vita ed opera letteraria, Dacia Maraini ne ha parlato e scritto più volte: in Vita mia (Rizzoli 2023) la scrittrice ripercorre la sua esperienza di prigioniera in un campo di concentramento del Giappone imperiale nel 1943. Suo padre, Fosco Maraini, insegnava all’università di Kyoto e con la moglie, Topazia Alliata, era ben integrato nella città e le sue strutture sociali del paese del Sol Levante. Quando decisero di non giurare fedeltà al governo nazifascista della Repubblica di Salò, vennero deportati in un campo di concentramento destinato ai traditori della patria. Per la famiglia Maraini iniziano gli anni più difficili. Il libro di memorie parte dai ricordi della madre dell’autrice, che tenne un diario personale in cui scriveva della «debolezza, fame, giramento di testa, nervi a pezzi», mentre il padre riportò le sue esperienze in Ore giapponesi.
La scrittrice ricorda i poliziotti nipponici imbevuti di ideologia nazionalista. Essi non vollero sentire ragione: anche i bambini – Dacia Maraini era con le due sorelle – dovevano seguire i genitori nel campo. «Mia madre, la sola donna del campo, cercava di mettere pace fra i compagni di prigionia, che lei nel suo diario paragona a dei bambini capricciosi che bisticciavano per un nonnulla […]. Nessuna delle guardie parlava e alle domande rispondevano col silenzio, al massimo un sorrisetto di superiorità, come a dire: ma cosa vogliono questi mezzi fantasmi? La nostra grande Patria vincerà e noi finalmente avremo l’ordine di fucilarvi tutti». L’autrice ha un ricordo vivo delle giornate nel campo: era piccola, si ficcava un po’ ovunque. Andava nei campi vicini, dove i contadini le regalavano patate e pomodori che poi portava al rientro tra i prigionieri.
Il 30 agosto del 1945, dopo due settimane di limbo, la prefettura di Nagoya ha mandato un camion perché li riportasse in città. Ma in realtà non si esce mai dal campo. Il sapore della libertà, appena uscita dalla prigionia, era impagabile. Nel libro parla una giovane ragazza, diventata anziana, che ricorda dove portano i nazionalismi. La nuova vita del campo avrebbe accolto la piccola Dacia? Rimanevano domande sul dopo-liberazione. Tornata in Italia, si considerava una piccola giapponese; con un futuro davanti, tutto da scrivere. Il rapporto con gli altri campi di concentramento è stato una costante per Maraini, che ha visitato più volte Auschwitz, Buchenwald e Ravensbrück. «Mi sono chiesta tante volte perché in Germania ci sono tanti musei al riguardo e in Italia quasi niente. Solo le pietre di inciampo. Che pure mi chino a guardare ogni volta con commozione».
Amedeo Gasparini
www.amedeogasparini.com
Dacia Maraini, bambina in un campo di concentramento in Giappone
Nel corso della sua vita ed opera letteraria, Dacia Maraini ne ha parlato e scritto più volte: in Vita mia (Rizzoli 2023) la scrittrice ripercorre la sua esperienza di prigioniera in un campo di concentramento del Giappone imperiale nel 1943. Suo padre, Fosco Maraini, insegnava all’università di Kyoto e con la moglie, Topazia Alliata, era ben integrato nella città e le sue strutture sociali del paese del Sol Levante. Quando decisero di non giurare fedeltà al governo nazifascista della Repubblica di Salò, vennero deportati in un campo di concentramento destinato ai traditori della patria. Per la famiglia Maraini iniziano gli anni più difficili. Il libro di memorie parte dai ricordi della madre dell’autrice, che tenne un diario personale in cui scriveva della «debolezza, fame, giramento di testa, nervi a pezzi», mentre il padre riportò le sue esperienze in Ore giapponesi.
La scrittrice ricorda i poliziotti nipponici imbevuti di ideologia nazionalista. Essi non vollero sentire ragione: anche i bambini – Dacia Maraini era con le due sorelle – dovevano seguire i genitori nel campo. «Mia madre, la sola donna del campo, cercava di mettere pace fra i compagni di prigionia, che lei nel suo diario paragona a dei bambini capricciosi che bisticciavano per un nonnulla […]. Nessuna delle guardie parlava e alle domande rispondevano col silenzio, al massimo un sorrisetto di superiorità, come a dire: ma cosa vogliono questi mezzi fantasmi? La nostra grande Patria vincerà e noi finalmente avremo l’ordine di fucilarvi tutti». L’autrice ha un ricordo vivo delle giornate nel campo: era piccola, si ficcava un po’ ovunque. Andava nei campi vicini, dove i contadini le regalavano patate e pomodori che poi portava al rientro tra i prigionieri.
Il 30 agosto del 1945, dopo due settimane di limbo, la prefettura di Nagoya ha mandato un camion perché li riportasse in città. Ma in realtà non si esce mai dal campo. Il sapore della libertà, appena uscita dalla prigionia, era impagabile. Nel libro parla una giovane ragazza, diventata anziana, che ricorda dove portano i nazionalismi. La nuova vita del campo avrebbe accolto la piccola Dacia? Rimanevano domande sul dopo-liberazione. Tornata in Italia, si considerava una piccola giapponese; con un futuro davanti, tutto da scrivere. Il rapporto con gli altri campi di concentramento è stato una costante per Maraini, che ha visitato più volte Auschwitz, Buchenwald e Ravensbrück. «Mi sono chiesta tante volte perché in Germania ci sono tanti musei al riguardo e in Italia quasi niente. Solo le pietre di inciampo. Che pure mi chino a guardare ogni volta con commozione».
Amedeo Gasparini
www.amedeogasparini.com