Siamo ormai quasi alla conclusione del Festival Internazionale di Teatro a Lugano (oggi gli ultimi due spettacoli) e dalla selezione offerta, lungo la tematica delle relazioni tra violenza e potere, emergono alcune costanti, come l’uso ricorrente di filmati, quindi aspetti documentari, paralleli all’autobiografismo. È stato il caso anche delle proposte di ieri. Il trentenne sudcoreano Jaha Koo (nell’intimità del palco del LAC dove era seduto anche il pubblico) con Cuckoo ha messo a confronto la propria storia con quella degli ultimi vent’anni del suo paese. All’inizio un filmato, attraverso brevi immagini flash, ne percorre le vicende. Centrale è la grave crisi economica che portò al Giorno dell’umiliazione, nel 1997, cioè quando la Corea del Sud firmò con il Fondo Monetario Internazionale un accordo per ricevere un prestito enorme, 50 miliardi di dollari, in cambio molte delle sue imprese industriali finirono in altre mani. Scorrono scene di protesta e di violenze, il disagio sociale, il crescente divario tra ricchi e poveri, quelli che hanno dovuto cercare lavoro altrove, lo spaventoso numero di suicidi (uno ogni 37 minuti). Nel corso della rappresentazione troveremo infatti alcune vicende emblematiche legate ad amici di Koo, quello che se ne è andato e non ha mai più rivisto, quello che si è ucciso e l’episodio del tecnico che deve freneticamente essere sempre sul posto quando si tratta di riparare le porte del marciapiede ferroviario. Le porte delle stazioni asiatiche, che impediscono di cadere sui binari e che si aprono solo quando arriva il treno, sono state dettate non solo da generici motivi di sicurezza ma proprio perché buttarsi sotto il treno era il mezzo più frequente per darsi la morte. Il tecnico deve arrivare entro un’ora dall’avviso di guasto, pena il licenziamento, se ci sono troppe chiamate, lo stress può essere tale da portare ad una distrazione e alla morte, investito da un treno, come è accaduto nel racconto narrato. Un’altra scena ci mostra una conferenza di Gretchen Rubin sulla felicità. Ma impassibile nel suo tono dimesso, timido, emerge il sarcasmo feroce di Koo quando svela il paradosso, perché lei è la figlia di quel Rubin, Segretario di stato degli USA, responsabile delle condizioni imposte alla Corea del Sud in cambio del prestito.
Tutte questo ha un legame con il profondo senso di abbandono ed isolamento, il Golibmuwon, quella sensazione comune al protagonista e ai suoi coetanei… Suo padre gli chiede al telefono “Hai mangiato?” che è come domandare: “Stai bene?”. E così si passa alle vere star, all’idea originale e divertente dello spettacolo. La Corea del Sud è anche uno Stato famoso per l’innovazione tecnologica, nel piccolo e nel grande, un apparecchio domestico che non manca mai nelle case è proprio il “Cuckoo” del titolo, il cuociriso a vapore che rende morbidi, come dice il nostro artista, i chicchi duri. Koo si rese conto della sua solitudine un giorno che l’apparecchio lo informò sul fatto che il riso era pronto… Su un tavolo ce ne sono tre, uno ha solo quella funzione lì ed è muto; ma gli altri due prendono decisamente la parola, quello che ormai ha smesso di cuocere il riso per diventare attore, come orgogliosamente dichiara, e quello che invece continua ad assolvere il suo compito di elettrodomestico, ma con tutte le sue lucine è anche capace di cantare canzoncine in missaggio elettronico, robotizzate e a doppio senso, sulla “pressione” nella vita e sul vapore… Spassosa la scenetta in cui i due litigano, come persone, e s’insultano a vicenda perché ciascuno vuole rivendicare la propria importanza, il proprio valore, una sorta di metafisica esistenziale nella formula asiatica, cioè metaforizzata attraverso oggetti che reclamano, pure loro, dignità e persino anima. Alla fine, mentre Koo prende il riso ormai pronto e ne fa formine impilate, scorrono le frasi principali dello spettacolo, specchio politico di una Corea del Sud la cui ripresa economica, dopo la grande crisi, si è prodotta sulla pelle della gente, a prezzo di stress, di un’esistenza in eterna sottopressione, schiacciata e resa inoffensiva come una polpetta di riso…
Non dello stesso livello è stata la performance successiva al Teatrostudio, Lovers, Dogs and Rainbows di Rudi van der Merwe. Qui ci spostiamo in Sudafrica e anche qui c’è un filmato, accanto ai due interpreti, lo stesso Rudi e Ivan Blagajcevic che sulla scena offrono mimica e canzoni, mentre scorrono le immagini di Calvinia, città natale dell’autore che vi torna a cercare le proprie radici. Un paesaggio desolato, i cani sono quelli di una infinita lista di posseduti e per la maggior parte tragicamente morti, soppressi o fuggiti, perché gli animali in un panorama di abbandono non contano nulla, come ancora i neri, vittime di soprusi e violenze, C’è il desiderio di amore e l’arcobaleno si riferisce alla comunità LGBTIQ. Queste problematiche e la difficoltà di essere e dichiararsi gay, emergono dalle testimonianze filmate. Mentre sulla scena, alludendo anche alla favola della Bella addormentata e ai suo possibili risvegli nella ricerca delle identità e nell’appariscenza di drag queen, la coppia di performer si veste, si sveste, si riveste… A parte la difficoltà di seguire in contemporanea il filmato e l’azione sul palco, resta la sensazione di elementi pasticciati, che non hanno il rigore di una logica né portano ad un reale coinvolgimento emotivo, seppure se ne capiscano le esigenze. Una performance da definire meglio.
Manuela Camponovo