“Dante ad Auschwitz”: i versi che salvarono Primo Levi
Sin dalle prime pagine di Se questo è un uomo, Primo Levi, per testimoniare e raccontare la disumana esperienza da lui vissuta, trova nell’Inferno dantesco le parole più adatte per esprimere le atrocità perpetrate dai nazisti e le sensazioni vissute dalle loro vittime. Arbeit Mach Frei (“il lavoro rende liberi”), sono queste le parole incise sul cancello di Auschwitz, l’inferno che vissero milioni di ebrei; un’espressione sadicamente beffarda, che andrà a simboleggiare per sempre il punto più basso raggiunto dall’umanità. «Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente […] Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate», così il Vate immaginava incisa la porta d’ingresso del Tartaro, ma se l’inferno dantesco risponde ad un ordine divino di giustizia («Giustizia mosse il mio alto fattore», si legge nell’iscrizione) non così quello dei Lager. Il novello Caronte, scortando gli ebrei nel campo di concentramento, invece di gridare «guai a voi anime prave», chiede cortesemente denaro ed orologi alle anime dannate, e decide, rapidamente e sommariamente, i loro destini. Lungi dal giudicare secondo i loro peccati, come faceva Minosse – ulteriore figura dantesca a cui si richiama Levi – le SS dividono in “sommersi” e “salvati” chi può lavorare utilmente o meno per il Reich.
È proprio a partire dal ricco tessuto di evocazioni dell’Inferno dantesco nell’opera di Primo Levi che lo spettacolo di Sergio Di Benedetto, Dante ad Auschwitz, andato in scena ieri sera al Parco Ciani nel contesto del Wor(l)ds Festival Lugano, che trae la sua ispirazione. Pensato per commemorare un triste e tragico anniversario, quello degli 80 anni delle leggi razziali in Italia (lo spettacolo ebbe il suo debutto nel 2018 a Ravenna, dove peraltro vinse il concorso internazionale Giovani Artisti per Dante), esse sono richiamate nello spettacolo, sia in forma fisica (esse erano infatti legate da un filo di ferro agli alberi del parco) sia attraverso le parole di Matteo Bonanni e Diego Becce, che tra i vari ruoli interpretati, impersonano anche quelli delle SS che leggono tronfiamente la follia lì enunciata.
Dante ad Auschwitz si concentra su un capitolo specifico e assai significativo di Se questo è un uomo, quando Levi incontra Jean, il Pikolo del Kommando, un giovane studente alsaziano che aveva il desiderio di imparare l’italiano; il pensiero del chimico torinese va subito al ventiseiesimo canto dell’Inferno. Questa folle, ma in fondo così razionale impresa, la racconterà ne Il canto di Ulisse: “folle”, perché Levi, in poco meno di un’ora (tempo necessario per andare e tornare dalle cucine) deve raccontare a Pikolo chi è Dante, cosa è la Commedia, come è distribuito l’Inferno e cosa è il contrappasso; “razionale”, perché quel canto riguarda tutti, soprattutto loro, gettati nell’abisso della più torbida e cieca malvagità umana, e che osano ragionare della forma più alta di letteratura nei campi di concentramento. Ecco allora che il verso «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» viene avvertito “come la voce di Dio” che comanda di non vivere come animali, di non perdere la loro dignità. Pikolo, nonostante la traduzione frettolosa capisce l’importanza di quel passo, che rappresenta per loro un’ancora di salvezza in mezzo alla deriva.
Primo Levi doveva compiere il suo viaggio sino ad Auschwitz per cogliere la similitudine tra il versetto 100, «misi me per l’alto mare aperto» e il verso 109 «acciò che l’uom più oltre non si metta». Ma se Ulisse supera le colonne d’Ercole infrangendo il divieto morale posto al confine umano, e per questo destinato agli abissi «com’altrui piacque», Levi cerca di infrangere la legge che vige nel Lager, che li vuole ridotti ad animali; anche questo novello Ulisse, appena travalicato il limite, viene “sommerso” come ad altrui piacque («Infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso» anche questo verso, che conclude il canto di Ulisse, Levi ricorda con amara sofferenza), ma qui è un altrui tutto ed interamente umano.
“Sommerso” perché anche se si sopravvive ai Lager, la ferita che crea quell’esperienza è insanabile. Ma allora qual’è la missione di Primo Levi? A ricordarcelo, nello spettacolo, sono le parole dello stesso scrittore, che in un’intervista dichiarò di aver avuto la sensazione di essere sopravvissuto al fine di raccontare quanto era successo e per scolpirlo nella memoria di tutti. Ed ecco così, che Dante ad Auschwitz, che si era aperto con la declamazione della poesia inaugurare di Se questo è un uomo, si chiude, con un perfetto parallelismo, con le parole di Dante, quando chiese a Cacciaguida dove avrebbe trovato il coraggio di raccontare quanto visto nel suo viaggio ultraterreno («lascia pur grattar dov’è la rogna…» commenta l’avo del Poeta). Levi avrà la stessa missione, quella di raccontare, non un inferno poetico e immaginario, ma quello reale, orribilmente umano, dei campi di concentramento, degli aguzzini e delle loro vittime.
Il grande merito dello spettacolo di Sergio Di Benedetto, ed eseguito dalla Compagnia Exire, è quello di mettere in scena un capitolo altamente simbolico di Se questo è un uomo, e lo fa mescolando le parole di Primo Levi a quelle di Dante Alighieri, mediante i due bravi attori, che ora declamano i versi della Commedia, ora interpretano il chimico e scrittore italiano. L’alta poesia si mescola alla gretta realtà, le melodie del violino di Virginia Sutera allo spaventoso suono di una sirena dei campi di concentramento (così è stato inaugurato lo spettacolo). Infine, in un palco recintato da fili di ferro, chiude lo spettacolo Roberta Di Matteo, una figura angelica, che avvolta in un fluttuante velo bianco, danza sul palco del Parco Ciani.
Lucrezia Greppi