Seconda tappa del progetto sulle Resistenze femminili in Italia, La semplicità ingannata. Satira per attrice e pupazze sul lusso d’esser donne è il gioiellino prodotto dall’estro di Marta Cuscunà, la giovane montefalconese che ieri sera ha costretto gli addetti ai lavori di Cava Broccatello ad aggiungere sedie, spostarle, incastrarle per il (gradito) forte afflusso di spettatori a Arzo. Molti di noi, in questa seconda serata di festival baciata da un cielo terso, si sono arrampicati su grossi pezzi di marmo, altri si sono adagiati su collinette di sabbia per godersi il racconto dall’angolazione giudicata migliore. Liberamente ispirato alle opere letterarie di Arcangela Tarabotti e alla vicenda delle Clarisse di Udine, La semplicità ingannata racconta – a ritmo frenetico: la Cuscunà non si arrende alla velocità fino all’ultimo dei 75 minuti di monologo – racconta l’hummus su cui maturò la rivendicazione delle donne nel Cinquecento. L’attrice (e autrice, e regista) parte scintillante, con la caricatura di tre “lotti”: tre donne in età da marito e abito nuziale messe all’asta al peggior offerente. Tre donne tutte diverse: la zoppa, la ribelle, la remissiva, ma identiche nel destino, quello del ritiro a vita monastica. Poiché nelle famiglie dell’epoca ad almeno una figlia femmina (Che disgrazia, è una femminuccia!) toccava in sorte l’eterno matrimonio con Cristo, sennò si era costretti all’esborso della dote. Ed era l’affatto mitologico – molto reale, invece – padre/orco ad accompagnare con l’inganno la bimba di sei anni entro le mura del monastero. Lo spettacolo alterna la voce monologante della narratrice alle voci del coro, un coro di sei bambole vestite da monaca cui dà voce la versatilità vocale della Cuscunà; ogni pupazzo rivela una sua personalità singolare: la capa, la saggia, la sciocchina, la rivoluzionaria, l’impaurita, l’indecisa. L’autrice ha calibrato con moltissimo humor e altrettanta intelligenza la verità storica e la rielaborazione teatrale, irrinunciabile al fine di rendere leggibile questa vicenda anche da un pubblico del XXI secolo. Ma di che faccenda parliamo? Di un episodio importante, di una rivoluzione che fa impallidire le più recenti conquiste femministe; perché le monache del Santa Chiara di Udine attuarono una forma di Resistenza davvero unica nel suo genere. Resesi consapevoli della loro condizione di “carcerate”, queste donne – eh già, perché prima di essere delle religiose erano donne, donne mestruate, donne con un cervello da nutrire e desideri da assecondare, queste donne trasformarono il convento udinese in uno spazio di contestazione, di libertà di pensiero, di dissacrazione dei dogmi religiosi e della cultura maschile con un fervore culturale impensabile per le donne dell’epoca. Ed ecco lo STOP dell’Inquisizione, che tentò di ristabilire un ferreo controllo sul convento e su quella comunità di monache con strumenti anche volgari o comunque poco leciti. Ma… ma le Clarisse si fecero beffe della presunta egemonia maschile, e vinsero con l’astuzia e l’intelligenza maturata in tutti quegli anni di cattività. Creando, dentro il Santa Chiara, un’alternativa sorprendente per una società in cui le donne erano escluse da ogni aspetto politico, economico e sociale della vita. Lo spettacolo, che prende a pretesto la monacazione forzata per parlarci dell’oggi, ha raccolto applausi ininterrotti e pieni, con persone in piedi a urlare “Brava, brava!” e un convinto scambio di opinioni conclusivo mentre dalla strada sterrata si raggiungeva a gruppetti il parcheggio. Brava l’attrice, ottimamente costruito il testo, regia brillante. E poi? Il bisogno di parlarne, di resistenze femminili. Attuarle. E avere donne stipendiate tanto quanto gli uomini. Donne libere di essere madri e di essere in carriera. Di essere amate e non sfruttate sessualmente o prese in giro o ignorate o vessate. Di essere ritenute idonee a candidarsi per qualunque posizione, concorso, competizione, occasione, anche insospettabile. È ancora urgente, oggi: 500 anni dopo la conquista delle Clarisse. 300 anni dopo i movimenti capitanati da Olympe de Gouges. 200 anni dopo Elizabeth Cady Stanton a New York e dopo due soli mesi dal nostro sciopero delle donne il 14 giugno scorso per le vie del Ticino.
Margherita Coldesina