Questa è la storia, un po’ romanzata, del mio amico Micio, di settant’anni, ricoverato, intubato, dimesso dalla clinica Moncucco, e poi convalescente a Novaggio. Una volta ricostruiti i momenti del suo vissuto, ho trasformato il suo racconto, mettendolo in prima persona, partendo dalla sua esperienza come malato Covid, cercando di dare al testo una forma alleggerita, che consenta di leggere la sua storia, dentro un umile “poetare”. Questa testimonianza di guarigione porta con sé l’assoluto rispetto, unito al loro ricordo, nei confronti di chi non ce l’ha fatta e dei loro familiari.
Ho sempre pensato alla mia vita, immaginandola con degli effetti speciali. Il buonumore e l’allegria sono stati la mia colonna sonora, non so se questo mi abbia sostenuto durante il ricovero, non lo posso accertare ma sono sicuro che le vibrazioni dei miei pensieri, sempre improntati al senso dell’humor, mi abbiano aiutato. Poi credo che anche la volontà, la costanza e il fisico bestiale (esagera per eccesso di simpatia n.d.a) siano stati fondamentali per superare questo tratto della mia vita che ho dovuto percorrere all’improvviso, senza avere il tempo di salutare, con serenità, mia moglie, e la mia famiglia. La mia indole spiritosa credo abbia contribuito a farmi guarire. Dal profilo spirituale questa esperienza ha rafforzato la convinzione che essere positivi, e non piangersi addosso, aumenta le difese immunitarie. Una volta sull’ambulanza mi ha assalito il pensiero che non avrei forse più rivisto i miei cari, ma malgrado questa immagine non ho permesso alla paura di sconfiggermi. Fino al momento del ricovero non ho avuto problemi di salute, e nemmeno sono stato particolarmente attivo con lo sport. Negli anni il mio sollevamento pesi è stato principalmente quello della forchetta, e dei calici di delizioso vino. Tutto inizia con dei leggeri dolori muscolari che col passare dei giorni si tramutano in un persistente mal di testa. Mi chiedo come farò, ora che mi sto allontanando dai miei affetti, mentre sto andando all’ospedale con l’ambulanza, ad esternare il sorriso, il buonumore che da sempre dipingono le mie giornate e quelle degli amici che raggiungo con le mie barzellette, e con i miei racconti scherzosi. Come su un treno in corsa, la diagnosi è implacabile. Dopo attente analisi i miei polmoni risultano infiltrati, i medici misurano la saturazione del sangue dopodiché parte l’intubazione. I tubi premono fino in fondo alla gola. Mi curarizzano, perdo conoscenza, resto incosciente per cinque giorni e al mio risveglio ho la lingua secca, come carta vetrata, come se fosse diventata di cartone. Il rumore di fondo dei macchinari si mescola all’angoscia della secchezza boccale. Sono stato la propaggine di un respiratore meccanico, un corpo sprofondato, in posizione prona, su un letto d’ospedale, immerso nell’odore dei farmaci, in balìa dei fragili segnali dei monitor, attaccato all’ossigeno. Gli sguardi degli infermieri e delle infermiere mi seguono notte e giorno. Accudendomi mi sfiorano il volto, avvolgendo lo spazio della stanza blindata alla vita, con i loro movimenti delicati, ispezionano ogni minimo cambiamento della mia capacità respiratoria, delle mie frequenze cardiache, del mio battito. Piano piano, con un ritmo lento e faticoso, comincio ad avvertire che sto tornando il Micio di sempre che scherza, fa battute, strappa un sorriso. Le infermiere, bardate fino agli occhi, si preoccupano di farmi stare bene. Un’infermiera volontaria, madre di due bambine, si prodiga per darmi sollievo e io mi preoccupo per lei e per i suoi figli. L’unica maniera di ricambiare il loro impegno, e la loro umanità era farle sorridere, per premiare i loro sforzi. Faccio fatica perché per sorridere ci vuole la forza dei muscoli, che dopo il periodo di intubazione si indeboliscono. Fare la doccia diventa un’impresa come scalare il Cervino. Intorno a me il bianco mi inonda: i camici, le pareti, le lenzuola, le scarpe del personale medico e paramedico, con la presenza costante dell’azzurro delle mascherine, che non è l’azzurro del cielo. Sono angeli di bianco vestiti, con la maschera chirurgica sul volto ed uno schermo in plexiglas a proteggere i loro occhi, i guanti in silicone freddi e senza pelle, i sovra camici gialli. Ci restano solo gli occhi per raccontarci di noi, del tremore che si sente nell’aria, della paura, dell’incertezza inchiodata nei corridoi. Escogito un giochetto per abbinare i loro occhi espressivi ai loro nomi. Favolosa tecnologia. L’abbinamento iPhone con YouTube permette di scovare e sentire canzoni. Riconosci gli occhi, cerchi Ivan Graziani che interpreta “Lugano Addio” e ringrazi Marta. Con Ray Charles ringrazi “Giorgia … on my mind”, con Rino Gaetano onori gli occhi di “Gianna”. E il gioco si fa sempre più scherzoso con il premio in palio. Vinciamo, con il vicino di letto, il premio “La camera più allegra” della clinica di Moncucco. Il ricordo che ho del personale è sempre vivo. Sento ancora il loro tocco amorevole, rivedo le loro facce dietro “l’armatura” riempirsi di gioia. Scorgo nei loro occhi un velo di speranza, la voglia di lottare con me, avverto il loro gioire nell’osservare i progressi del mio stato di salute, immagino le loro lacrime trattenute a stento, quando vedono che sto riprendendo il respiro, quando capiscono che sto migliorando, quando mi liberano dalla morsa e finalmente mi dichiarano fuori pericolo. Ricordo una notte; al compagno di camera, dopo un brusco movimento nel sonno, gli si sfila parzialmente, dal braccio, l’ago della flebo che lo collega ai medicinali di cui necessita. La giovane infermiera lo nota. Subito si mette all’opera per rimediare all’inconveniente. È sola, l’ago non vuol saperne di riposizionarsi correttamente nella vena. Sono attimi di tensione, impreca ma non molla. Dopo qualche interminabile minuto ottiene con successo il riposizionamento dell’ago. Tiro un sospiro di sollievo, avverto la sua soddisfazione. Sullo sfondo di questo scenario la televisione trasmette numeri, morti, tamponi, contagiati, polemiche, notizie fasulle. Una contabilità ripetitiva, forse inutile, sicuramente fastidiosa. La mia filosofia di vita è improntata al piacere di poter dare, alla soddisfazione del donare, altrettanto gratificanti del ricevere. Ho avuto un’educazione cattolica ma il mio credo è piuttosto umano, non credo nel divino. Quello che più mi è pesato è stato l’isolamento e la costrizione ad essere confinato, al terzo piano della clinica di riabilitazione, in una stanza di nove metri in diagonale. In uno spazio così ridotto mi sono sentito come un leone in gabbia, perciò misuro la stanza di nove metri che percorro in diagonale per novantun volte. Mi sento prigioniero ma non ho fatto nulla se non beccarmi il virus, non ho ucciso, non ho fatto del male, non ho imbrogliato, sento di non meritarmi questo isolamento. Poi il sorriso dolce della fisioterapista mi spinge ad eseguire, con costante perseveranza, gli esercizi che mi riporteranno alla normalità interrotta. Restituisco tutta la mia forza agli anni che ancora mi aspettano da vivere, pensando al personale medico e paramedico. Affronto la convalescenza con la tenacia di chi lotta per la nuova vita, sforzandomi alla guarigione perché un pezzo della mia vita la devo alle cure di chi mi è stato vicino, notte e giorno. Lo devo a me stesso, alla mia famiglia, agli angeli di bianco vestiti, a chi non ne è uscito vivo. E se avrò la forza di ridere saranno i primi a ridere insieme a me. Ed è così che ho ripreso la mia vena di giullare della vita altrui. A prova di questa rinata giovialità, sto percorrendo, giornalmente, iniziando dai piccoli sforzi, dieci chilometri al giorno (10 km), respirando come respiravo prima di ammalarmi. Ho ripreso in mano il mio strumento di compagnia preferito: la chitarra, canticchiando canzoni, anche scherzose sul tema Covid. Se dovessi darmi un voto, descrivendo come mi sento dopo la mia esperienza di malato Covid, direi sette più, parafrasando Cochi e Renato. E se proprio volete saperne di più sul mio conto “interpretate” il nome d’arte che mi sono attribuito, Robert Mitchum, scoprirete di più sulla mia persona.
Nicoletta Barazzoni