Di Guglielmo Volonterio – deceduto lo scorso 6 febbraio all’età di 92 anni – verrebbe da dire ch’era un intellettuale scomodo. Ma gli intellettuali non sono poltrone design, se ne esistono di comodi sono lacchè o finti tonti. Volonterio era qualcosa di più complesso, meno inquadrabile; era un intellettuale indecente, nel senso sadiano del termine (una certa propensione all’erotismo anticonformista è d’altronde ravvisabile in alcune sue opere narrative); cioè figlio di un illuminismo senza tentazioni universaliste; un seguace di Zola e del suo J’accuse, sempre in cerca di una contraddizione – lui avrebbe detto di un «circolo ermeneutico» – che mettesse in scacco ogni tentativo lenificante di trasparenza.
Era abitato da un pirandelliano «sentimento del contrario», cioè da quell’umorismo che denuncia il conformismo, che scarta di lato, spesso in un impeto ribelle dissennato, e detesta i determinismi impliciti; che sonda le genealogie e i rizomi del senso, che mette in gioco una soggettività a volte ferita, fisicamente ferita, come il suo corpo segnato dai postumi della poliomielite. Battagliero, ingarbugliato, si contorceva sui nodi non per scioglierli, ma per stringere intorno a loro un serrato assedio d’intelligenza e di sensibilità. Nella sua appassionata e variegata opera di storico dell’arte e di critico cinematografico (militante perché giornalistica, ma non solo) emergono due saggi determinanti, come perle nere, moniti di un pensatore indocile, rissoso anche sulla pagina se necessario, pronto a non fare concessioni.
Il ponderoso volume sulla storia del Festival del Cinema di Locarno, pubblicato da Marsilio per i cinquant’anni della kermesse: un testo denso e barocco, che solo apparentemente tenta di far ordine in una grande epopea artistica. In realtà è più propenso a porsi come una spina nel fianco alla tentazione del trionfalismo, chiedendosi secondo quali meccanismi – posizionamenti internazionali, industria culturale, meschinerie e provincialismo – un festival potesse trovare un suo modo di essere «vincente». Tra bonomia e solennità, osservava Kezich recensendo Volonterio e notando che il suo saggio «gira e rigira il suo acuminato coltello in tutte le piaghe della rassegna»; prima tra tutte la sproporzione tra istinto cosmopolita e inadeguatezza culturale.
Un tema classico della cultura critica ticinese, quest’ultimo, fin da quando nel 1912 Giuseppe Prezzolini aveva definito la regione priva di «un’anima propria, perché non ha una cultura propria»; un paradosso che sottende anche il lavoro più rigoroso di grandi storici come Gilardoni o Mena. La visione di Volonterio era più chiaramente decostruttiva, a volte violenta fino alla requisitoria, sotto cui ribolliva un desiderio di verità e di libertà raramente eguagliato nella tiepida Svizzera e nell’ancor più tiepido Ticino. Lo stesso donchisciottesco furore – più focoso per temperamento personale, certo – di autori come Plinio Martini, Sandro Bianconi, Tita Carloni o Enrico Filippini.
Enrico Filippini, appunto, a cui Volonterio consacrò un saggio, per Feltrinelli, disordinato e geniale. Altri, prima e dopo di lui – penso all’encomiabile recente lavoro di Marino Fuchs, dal taglio più «modestamente» universitario – hanno ricostruito le vicende di questo intellettuale, locarnese esule, vero ponte culturale tra Nord e Sud: Volonterio ha invece affrontato Filippini sul suo versante più tortuoso e (in parte) sconfitto, quello di un puro dall’anima affastellata, reso quasi afasico dalle ambizioni avanguardiste, ma giustamente così poco «spendibile» (bankable) da diventare scandaloso, di troppo.
Per questo il libro si concentra con piglio polemico e determinazione archivistica sulla vicenda dell’assegnazione della cattedra d’Italiano del Politecnico Federale di Zurigo, con l’esclusione «maccartista» dei goscisti Giovanni Orelli e Enrico Filippini. Per questo analizza ossessivamente le procedure d’autocensura molle che hanno condizionato una parte congrua della cultura elvetica: «in Svizzera non si è mai emarginati completamente: si parcheggia il personaggio scomodo in aree perimetrali, che gli consentano di esprimere parzialmente le sue qualità, agendo nella misura della imposta integrazione. Simultaneamente si favorisce la mediocrità intellettuale».
Rileggere oggi le pagine di Volonterio è tanto più urgente in quanto – come ha segnalato Fabio Pusterla – è tramontata definitivamente anche la scusa della provincia, che aveva il vantaggio di rimanere ancorata a una storia locale, magari pasolinianamente ottusa ma non sterilizzata da interessi opachi, da addentellati finanziari o festivi. Ed è urgente abitare la battaglia con il corpo martoriato – perché i corpi «contano» direbbe Butler – e la voce che sbarella. In uno scampolo di terra pencolante su un vuoto epocale, sull’accelerazione della ricchezza fintamente democratizzata, Volonterio fu senza tregua una voce fuori dal coro. Un «cristo d’uomo», si direbbe in dialetto, a cui piacerebbe certamente, come omaggio postumo, che gli si dedicasse la Crocifissione basilese del Grünewald: dove tra un cavaliere in armi dallo stile pre-rinascimentale e tre Marie di tradizione quattrocentesca, il Cristo in croce non assomiglia a null’altro, sorta di spugna di carne crivellata e sporca.
Pierre Lepori, da www.Viceversaletteratura.ch