Letteratura

I “confini” della lingua: Babel 2019 e la voce di chi non ha voce

Mettici un’opera di culto – 40 anni di lettori esimi alle spalle, che l’hanno letta e riletta, senza che essa perdesse mai il suo fascino o venisse banalizzata, da Barthes a Calvino – un festival che alla sua 14esima edizione riconferma in pieno la sua qualità, aggiungici l’ironia e la sagacia di due relatori che si ritrovano per la prima volta su un palco assieme, pur dando l’impressione di conoscersi da sempre: ne esce l’incanto, ricco, denso, intramontabile di giocare con la lingua e i suoi misteri, ma soprattutto risalta la genialità di una pubblicazione come il Codex Seraphinianus, raccontato quest’oggi a Babel 2019 niente meno che dallo stesso autore, Luigi Serafini, in dialogo con Paolo Albani, che le lingue, in tutte le forme e le declinazioni – l’abbreviata, l’alchemica, l’adamitica – le studia e le conosce da sempre. Il risultato? Una sfida vinta: riuscire ad accompagnare con maestria il pubblico – si pensi a un Teatro sociale di Bellinzona gremito – nel campo vastissimo, enorme, sconfinato delle lingue inventate, quelle immaginarie, artificiali, fittizie, ma anche ausiliarie, purché non reali, come quella del Codex, “uno dei casi più misteriosi e articolati di lingua fantastica”.

“Lingue, traduzioni, rapporti, ponti: sono tutte cose che mi hanno sempre affascinato”, rivela Serafini, che però non sa spiegarsi come è nato esattamente, 40 anni or sono, il Codex. Ma forse una spiegazione c’è, e sta proprio lì, nel cuore della tradizione italiana più pura, in quei testi capitali come la Divina Commedia e il suo 26esimo Canto del Purgatorio, quando ci troviamo confrontati con il provenzale fantastico di Arnaut Daniel. “Una cosa ho sempre saputo”, incalza Serafini, “tra le lingue ci sono degli intrecci continui”.

E più ne parla e più il pubblico vuole sapere. Babel permette anche questo: non solo un confronto frontale e cattedratico con i relatori, ma anche un’immersione piena nel loro mondo con i laboratori didattici che accompagnano la tre giorni di Festival. Quest’anno, a tenerne uno, domani, proprio Albani. Egli spiega che, questa volta, la proposta ai partecipanti è ardita: “Ho proposto di tradurre niente meno che…Pape Satàn, Pape Satàn aleppe, la famosa frase pronunciata da Pluto nella Commedia, guardiano del quarto cerchio. Come tradurre una frase che già in origine non ha significato? Senz’altro giocando con i suoni. Il buon traduttore pensa sempre di arrivare a qualcosa di simile nel suono”.

Poi la rievocazione di una figura, quella di Fosco Maraini. “Inventare le lingue, anche per lui, era un divertissement; tuttavia, l’invenzione di una lingua inesistente richiede un lettore non solo divertito, ma attento, attento a usare la propria immaginazione”. Di Maraini, in particolare, ricorda le sue “Fanfole”, una “lingua metasemantica”: il senso c’è, nonostante l’insensatezza delle parole. “Ma non provate a farne un’esegesi”, redarguiscono Albani e Serafini; “le Fanfole non si toccano: o si prendono così come sono, o si lasciano stare, non si analizzano”. Questo per dire che le lingue immaginarie hanno anche un che di “sacro”; fissano un limite, che in parte resterà per sempre invalicabile.

Ma i limiti a Babel piacciono; piace, ai suoi partecipanti, sfiorarli, anzi: si attendono che il Festival li porti “al di là del confine”, fino a costringerli ad un’ammissione, ovvero “non parlerai la mia lingua” (motto del Festival). E così, sempre nel pomeriggio, a calcare il palco del Teatro Sociale è salita invece Valeria Luiselli, che però ha parlato al suo pubblico di ben altri “confini”, non più segnati (se non in parte) dalle parole, bensì, anzitutto, dal sangue, dal sudore, dalla fatica: sono i confini che dividono gli Stati Uniti dal Messico e che l’autrice ha potuto osservare da vicino, quindi indagare in un racconto, come “L’archivio dei bambini perduti”, finalista del premio Man Booker Prize 2019.

“Una fiction”, sottolinea l’autrice, che non ha paura di dire di aver trovato nella forma romanzata la “sua” forma, quella che le ha permesso di sviluppare delle tematiche in passato solo accennate, e che finalmente, tramite il romanzo, hanno trovato il loro aboutissement. “L’archivio dei bambini perduti” è, secondo le sue parole, “una sorta di oggetto culturale per rimettere nello spazio del dibattito, nella discussione pubblica un tema che il governo Obama aveva nascosto sotto la sabbia: quello dei migranti”. Migranti di tutte le età, ma soprattutto bambini, “le cui storie sono le più difficili da raccontare”, ammette Luiselli, senza nascondere le difficoltà di dedicarsi ad una pubblicazione così impegnativa.

“Era l’estate del 2014”, ricorda, “con la famiglia avevo intrapreso un viaggio on the road; per me, da messicana, era la prima volta che da nord, dagli Usa, mi spostavo verso sud, verso il Messico. Ho subito capito che da raccontare c’era tanto, tantissimo”. Così la scrittrice si mette all’ascolto: sì, non la mano pronta a stendere un resoconto su un anonimo foglio bianco, ma prima di tutto le orecchie protese, “perché il suono permette un altro ritmo, ha una diversa immediatezza, ti richiede permanenza nel tempo, ti costringe a rallentare; proprio quello che avevo bisogno per scrivere”. Così, emerge anzitutto dal romanzo “un’architettura sonora”, per scoprire che tutti quei migranti – tra cui, sottolinea, 60’000 bambini in cerca di asilo in un solo anno – “non sono vittime, non subiscono; anzitutto, agiscono: intraprendono volontariamente un viaggio, nella speranza che la loro condizione esistenziale cambi”. E, di fronte alle loro storie umanamente tragiche, ecco l’emergere, però, di una chiara consapevolezza, il fil rouge di tutto il romanzo, ciò che lo rende un’opera prima: “non si tratta di raccontare la storia di una disfatta, ma di avere un approccio epico; sono storie che vanno raccontate come una grande epopea”. Uomini coraggiosi, diremmo, che necessitavano dell’accoglienza, altrettanto caparbia, entro le pagine del suo ultimo libro, di Luiselli. E il pubblico, ancora una volta, applaude a lei e a Babel.

Il resoconto della giornata di domenica sarà pubblicato sul prossimo numero del nostro Magazine.

Laura Quadri 

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