Commento

Il disordine mondiale dovuto allo shift of power

Disordine mondiale (Mondadori 2024) di Manlio Graziano è un affascinante percorso tra storia, politica e relazioni internazionali. Racconta di come il moltiplicarsi dei conflitti negli ultimi due secoli sia sfociato nel caos globale attuale. Un’epoca di multipolarismo, caratterizzata dallo slittamento dei rapporti di forza tra i vari attori internazionali. Al centro del volume, l’ascesa e la caduta delle grandi potenze. Graziano fa un affresco dapprima teorico e poi storiografico delle radici del disordine attuale. Alla base c’è la sequenza «guerra di annientamento del nemico / resa incondizionata / nuovo ordine politico» che si è ripetuta regolarmente nei secoli. «Ogni periodo di stabilità relativa ha sempre cominciato a vacillare per effetto di una fase prolungata di sviluppo ineguale». Da considerare anche lo shift of power (o “traslatio imperii”) – dislocamento dei rapporti di forza tra le potenze.

Tra il 1941 e il 1991, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica cooperarono nel processo di disgregazione della Germania e nel declino dell’impero britannico, mantenendo così l’Europa frammentata per cinquant’anni. Mosca ottenne il consenso per estendersi in territori precedentemente inaccessibili per gli zar. Allo stesso tempo, Washington garantì la sua supremazia. E tenne grossomodo l’Europa al di fuori della competizione internazionale per cinquant’anni. Henry Kissinger ha sostenuto che gli organi di sicurezza collettiva sono efficaci solo nel fermare atti di aggressione che non coinvolgono le grandi potenze. Nicholas Spykman argomentò che tali organismi sono creati e funzionano solo se voluti dalle grandi potenze stesse. Tuttavia, secondo Graziano, nel disordine mondiale di oggi, tutti i paesi sono chiamati a partecipare a tali organizzazioni, creando l’illusione di un parlamento mondiale. Tuttavia, tali aspirazioni ignorano la naturale incapacità dei vari paesi di collaborare per il bene comune.

Secondo Thomas Hobbes, lo stato naturale dell’uomo è caratterizzato dalla guerra di tutti contro tutti. Jean-Jacques Rousseau, al contrario, sosteneva che l’uomo è naturalmente buono e incline alla giustizia. Tuttavia, entrambi giunsero alla stessa conclusione. Cioè che la necessità di un contratto sociale per regolare i conflitti umani. Il primo dei sei principi del realismo politico di Hans Morgenthau afferma che la politica, come la società in generale, è guidata da leggi radicate nella natura umana. Il secondo principio sostiene che l’interesse è definito in termini di potere. Tesi che si contraddicevano con le tesi ottimistiche del doux commerce, sostenute Jeremy Bentham, Richard Cobden e Norman Angell. Nel 1795, Immanuel Kant spiegò in Zum ewigen Frieden che la precondizione per una pace perpetua era la trasformazione di tutti i paesi in repubbliche basate sull’uguaglianza giuridica.

Kant immaginava un mondo in cui gli interessi particolari si sarebbero fusi in un interesse comune. Concetti simili furono adottati da Richard Coubenhove-Kalergi, che argomentava che le grandi potenze dovessero riconoscere e rispettare reciprocamente i loro interessi. «Il mito delle pan-regioni è tornato di moda con il recente aggravarsi delle tensioni internazionali», osserva Graziano. «Ma la ragione principale per cui le pan-regioni sono irrealizzabili è che il sistema capitalista non consente l’autosufficienza». Da qui la ricerca del Lebensraum. Il secondo capitolo sul disordine mondiale ripercorre l’illusione di un mondiale che, secondo Graziano, non è mai esistito. Nel periodo considerato il più lungo di pace nella storia, compreso tra il Congresso di Vienna e la Prima Guerra Mondiale, il mondo ha conosciuto 692 conflitti. Gran parte di questi scontri si è verificata al di fuori dell’Europa ordinata a Vienna.

Graziano suggerisce che invece di parlare di un ordine mondiale, sarebbe più accurato riferirsi a un ordine europeo. Questa prospettiva europea è comprensibile, poiché prima del Cinquecento le connessioni tra le varie parti del mondo erano inesistenti o discontinue, sottolinea l’autore. La pace di Westfalia (il fondamento delle moderne relazioni internazionali, poiché riconoscono le sovranità e stabilivano il “cuius regio eius religio”) mirava a porre fine alla lunga lotta tra il mondo francese e quello germanico per il dominio sull’Europa. Tuttavia, questo concetto era già stato introdotto con la pace di Augusta nel 1555, che cercò di porre fine alle dispute tra principi protestanti e cattolici in Germania. Secondo Kissinger, il risultato della pace di Westfalia fu la creazione del balance of power. Cioè, un sistema di equilibrio tra le potenze basato sul reciproco riconoscimento degli interessi.

La pace di Westfalia rappresentò uno dei primi esempi di sicurezza collettiva basata sul calcolo degli interessi dei partecipanti, anziché su principi etici, come proposto da Woodrow Wilson tre secoli dopo. Secondo Graziano, affinché la sicurezza collettiva sia efficace, è cruciale che una o più forze interessate a mantenere quell’ordine siano sufficientemente potenti da prevenire la sua violazione. Pertanto, l’ordine è sempre determinato dai vincitori e perdura fintanto che questi sono in grado di far rispettare le regole. Nonostante la pax Christiana dell’epoca, l’ordine di Westfalia non riuscì a garantire tale pace. Tra il 1859 e il 1871, si verificò uno spostamento di potere con l’ascesa del concetto di nazione. La crisi dell’Impero ottomano, il desiderio della Francia di liberarsi delle restrizioni imposte a Vienna e la potenza prussiana furono fattori che minarono la capacità del Regno Unito di fungere da stabilizzatore.

Londra, concentrata sul suo impero, perse la sua capacità di imporre dall’esterno il mantenimento dell’ordine. A Westfalia si decise che ogni Stato aveva il legittimo diritto di perseguire i propri interessi. E l’equilibrio delle forze (l’ordine) consisteva nel rispettarli, a condizione che non danneggiassero gli interessi altrui. Tuttavia, gli interessi degli Stati tendevano sempre, prima o poi a sovrapporsi e scontrarsi con quelli degli altri. Graziano sottolinea che i progetti politici privi di fondamenti nella realtà finiscono per favorire gli interessi di altri. Il concerto d’Europa si dimostrò inefficace. La Francia di Napoleone III, desiderosa di porre fine all’ordine di Vienna, si schierò a favore del principio di nazionalità. Tuttavia, il progetto dell’imperatore francese contribuì a rafforzare la Germania. E le consentì infine di unificarsi e di mettere fine definitivamente all’ordine di Vienna.

Otto von Bismarck aveva adottato una politica estera flessibile da poter cambiare direzione in base alle opportunità. La Prussia, sotto la sua guida, era uno Stato efficiente e centralizzato, protestante e fondato su una base sociale di proprietà terriere. In accordo con Montesquieu, Angell (The Great Illusion), intendeva dimostrare l’impossibilità di una guerra, economicamente e socialmente irrazionale. Credeva che l’interdipendenza economica dei paesi industrializzati sarebbe stata «l’effettiva garanzia di un comportamento corretto da parte di uno Stato verso un altro». Nel 1914, Londra manteneva la sua posizione come prima potenza mondiale. Tuttavia, riconosceva che non sarebbe stata più l’egemone stabilizzatore. Il Regno controllava oltre 400 milioni di sudditi, un quarto della popolazione mondiale. La sua flotta era il doppio di quella tedesca e il triplo di quella francese. Le esportazioni di Londra rappresentavano il 17,6 per cento di quelle mondiali, mentre Berlino si avvicinava al 17 per cento.

Di conseguenza, per contrastare le ambizioni tedesche, Londra si avvicinò a Parigi (tramite l’Entente Cordiale del 1904) e a Mosca (tramite la Convenzione del 1907). Al termine della Prima Guerra Mondiale, potrebbero esserci state le condizioni per creare un nuovo ordine tra potenze. Ma gli Stati Uniti, che avrebbero dovuto essere il fulcro di questo nuovo ordine, non si assunsero questa responsabilità. Il conflitto riprese da dove si era interrotto, dopo un armistizio di vent’anni, come aveva predetto Ferdinand Foch. Fu però Washington a proporre la creazione della Società delle Nazioni. Graziani evidenzia che i trattati firmati tra il 1919 e il 1920 rappresentavano un miscuglio di realismo impotente e ideali moralistici, basati sull’illusione di sostituire il balance of power, ritenuto responsabile della guerra. Wilson credeva di eliminare le rivalità organizzate e sostituirle con una pace comune organizzata.

Ma «rimpiazzare gli interessi nazionali (le “rivalità”) con un presunto comune interesse per la pace era un puro atto di volontà […] dove c’è sempre qualcuno disposto a rimettere in questione l’ordine stabilito, e quindi […], disposto a chiudere gli occhi di fronte alle violazioni della pace, o anche a collaborare con il trasgressore». In Cecoslovacchia, le minoranze erano un terzo della popolazione, quanto in Polonia e in Romania. E in Jugoslavia coabitavano quattordici gruppi etnici, il cui più importante – quello serbo – pesava per circa un terzo del totale. Si noti, ricorda Graziano, che la Società fu sì in grado di affrontare con successo una decina di crisi riguardanti casi minori. Tuttavia, fu impotente al momento della Ruhr (1923), di Corfù (1923), della Manciuria (1931), dell’Abissinia (1935), della Spagna (1936-1939), della Finlandia (1939). John Maynard Keynes, delegato britannico a Versailles, denunciò la pace imposta alla Germania.

Oltre alla cessione di un settimo del territorio e la perdita delle colonie, Berlino fu accusata come unica responsabile del conflitto e condannata a pagare riparazioni di 132 miliardi di marchi-oro (439 miliardi di dollari nel 2020), da saldare entro il 1965. Coubenhove-Kalergi sostenne che l’integrazione europea sarebbe stata possibile solo con la riconciliazione tra Francia e Germania. Il terzo capitolo del testo di Graziano si concentra sull’accordo di Yalta. L’inizio delle ostilità in Europa diede agli Stati Uniti l’opportunità di indebolire il loro rivale principale, il Regno Unito. Nel 1941, Londra adottò la legge “Affitti e Prestiti”. Che rafforzò la superiorità produttiva degli Stati Uniti. Per quanto riguarda la Russia, non aveva mai avuto conflitti significativi con gli Stati Uniti e non rappresentava una minaccia diretta. Winston Churchill tentò invano di contrastare molte decisioni americane che favorivano la Russia a discapito del Regno Unito.

Bretton Woods stabilì un nuovo ordine economico e finanziario per porre fine al disordine mondiale, con la creazione di un sistema di cambi fissi basato sul dollaro. Franklin Delano Roosevelt accettò il piano di Stalin di spostare le frontiere della Polonia verso ovest e si astenne dal pressarlo sui Baltici. La Società fu considerata un errore da non ripetere. Nacque l’ONU. Fino ad oggi, il Consiglio di Sicurezza non è stato in grado di prevenire alcun conflitto coinvolgente i suoi cinque membri permanenti. I quali hanno condotto bombardamenti, invasioni, guerre, colpi di Stato, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il diritto di veto dei membri permanenti non li ha mai dissuasi dal perseguire i propri interessi. Dal canto suo, Roosevelt vedeva in Churchill un alleato durante la guerra e in Stalin un partner per preservare la pace.

Il nuovo ordine che si è delineato dopo il conflitto è stato un equilibrio di potere tra sfere di influenza. Harry Truman ha continuato la politica del suo predecessore. Graziano scrive che la principale differenza rispetto alla guerra precedente era che nel 1945 gli Stati Uniti erano molto più coinvolti sulla scena internazionale e il mantenimento del loro benessere dipendeva dalla capacità di gestire questa esposizione. Tra il 2019 e il 2021, Washington ha contribuito al 22 per cento del budget dell’ONU. Quasi quanto gli altri quattro membri del Consiglio di Sicurezza messi insieme (23,7 per cento). E in proporzione ancora di più in alcuni dei suoi numerosi programmi specifici. Se gli Stati Uniti decidessero di ritirarsi, l’ONU cesserebbe di esistere, conclude Graziano. Sebbene vincitore della guerra, il Regno Unito si trovava tra i principali sconfitti, costretto a ritirarsi da territori come la Grecia, la Palestina e l’India.

A differenza della Germania e del Giappone, occupate dagli americani, il Regno Unito conservava ancora le sue istituzioni in grado di sviluppare politiche estere autonome. Il Trattato di assistenza reciproca firmato tra Londra e Parigi a Dunkerque portò alla creazione dell’Alleanza Atlantica. L’amministrazione Truman riuscì a mantenere la sua presenza militare in Europa occidentale attraverso la NATO. In risposta, i russi crearono il Patto di Varsavia. Questo ordine geopolitico stava già gettando le basi per il futuro disordine mondiale. Il quarto capitolo esamina il grande disordine mondiale partendo dalla Guerra Fredda. Tra il 1945 e il 1991 si sono verificati 160 interventi militari, tra conflitti statali, guerre di liberazione, guerre civili, colpi di Stato, con un bilancio di vittime stimato tra 12 e 32 milioni. Nonostante non sia scoppiata una guerra frontale tra le due superpotenze, l’URSS era nettamente meno potente rispetto agli Stati Uniti.

«Non era affatto una superpotenza e non rappresentava una minaccia per gli Stati Uniti […] rappresentò alcune minacce indirette e circostanziate, in Asia, America Latina e Africa […]. Una potenza dominante può sentirsi minacciata in tre modi […]: se le si impedisce di continuare a svilupparsi […]; se le si stornano alleati e/o mercati; se si mette a rischio il suo ruolo dominante […]. Le minacce rappresentate dalla Russia sono sempre state localizzate e di scarsa portata, manovre di disturbo e di pressione che non hanno mai messo in discussione il ruolo dominante degli Stati Uniti». Durante tutta la Guerra Fredda, gli Stati Uniti operavano su due fronti distinti, la strategia e l’improvvisazione, che talvolta si sovrapponevano. Negli anni Settanta ci fu l’abbandono degli Stati Uniti della convertibilità tra dollaro e oro.

Per Graziano «le vecchie potenze furono pertanto costrette a imboccare la strada di una radicale ristrutturazione delle loro politiche economiche e sociali: non solo incrementare la produttività e contenere i salari, ma anche ridurre l’erogazione di una serie di servizi, protezioni, garanzie, sussidi, pensioni, indennità, privilegi». La globalizzazione ha prodotto un rapido shift of power. Negli anni Settanta, tutti i paesi che avevano guidato i mercati globali nei secoli passati hanno iniziato a perdere influenza, portando a un declino relativo del loro peso politico. Il crollo dell’Unione Sovietica è stato un punto di svolta nei rapporti geopolitici, evidenziando lo shift of power. Tuttavia, questo evento non ha dato vita a un mondo unipolare eterno. Nel 1991, l’economia americana costituiva il 26,8 per cento del PIL mondiale, aumentando al 28,4 per cento entro la fine del decennio. Nel 2000, il PIL degli Stati Uniti era cinque volte quello della Cina.

Tuttavia, le politiche di contrasto adottate – come l’attacco all’Iraq di George W. Bush, il ritiro dal Medioriente sotto Barack Obama, l’isolazionismo sotto Donald Trump – hanno interpretato la crescita dei concorrenti. Si prevede un possibile scenario futuro di un E7, composto da Cina, India, Brasile, Indonesia, Messico, Turchia e Nigeria. Questi paesi rappresentavano poco più di un decimo del PIL mondiale nel 1975, quasi un quinto nel 2000 e il 40 per cento nel 2023. La globalizzazione ha modificato i rapporti tra le vecchie potenze industrializzate e i nuovi emergenti. La crisi del 2008 ha accelerato questa tendenza. All’invecchiamento demografico si aggiunse una crescente tendenza al rigetto delle regole del contratto sociale. Inoltre, la politica, come la natura, teme il vuoto. Ma la corsa a riempire questi vuoti lasciati dagli Stati Uniti è stata una corsa verso il caos, rafforzando il disordine mondiale.

Guardando al presente, l’evacuazione di Kabul nel 2021 segnò il punto più basso della credibilità degli Stati Uniti. Sebbene vi fosse una soddisfazione nascosta per l’umiliazione americana, essa era equilibrata da una forte preoccupazione per il vuoto di potere che stava emergendo. Graziani ricorda che l’invasione russa dell’Ucraina ha permesso agli Stati Uniti di guardare con favore alla fine del legame energetico Germania-Russia, di mettere da parte ogni ambizione di autonomia strategica francese, di rafforzare la propria presenza militare in Europa, di rinvigorire la NATO con l’accettazione di due nuovi membri. In conclusione, «senza condizioni geografiche favorevoli, senza intraprendenza, senza una forza-lavoro giovane e abbondante, senza un’organizzazione istituzionale fluida e credibile, senza un gruppo dirigente animato da un forte senso dello Stato, senza coesione nazionale […], la possibilità di trasformare la forza economica in forza politica capace di imporsi su quella di tutti gli altri è nulla».

Nessuna potenza attuale risponde ai criteri imposti dagli Stati Uniti durante la Guerra Fredda. L’URSS ha sempre avuto un ruolo marginale nella vita economica americana, con esportazioni limitate a materie prime energetiche e armamenti. Sebbene fosse un rivale militare significativo, l’URSS ha dovuto destinare una parte considerevole delle sue risorse, fino al 25 per cento del PIL, alla spesa militare. Al contrario, nel 2022, la Cina ha destinato solo l’1,6 per cento del suo PIL alla spesa militare, meno della metà degli Stati Uniti (3,5 per cento del PIL). Oggi Pechino si vanta di essere l’unica potenza a sostenere e difendere le regole della globalizzazione Ma ha dimostrato di essere disposta a trasgredirle quando lo riteneva conveniente. Nel disordine mondiale, scrive Graziani, criticare l’ipocrisia dell’avversario è ipocrita, poiché nessuno rispetta le stesse regole e non è realistico sperare di persuadere i rivali a rinunciare ai propri interessi mediante persuasioni pacifiche.

Amedeo Gasparini

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