Il follemente corretto di Luca Ricolfi (La nave di Teseo 2024) analizza l’evoluzione e la degenerazione del politicamente corretto. L’autore evidenzia come questo fenomeno, nato negli anni Settanta con l’intento di promuovere coesione sociale e tutelare i soggetti più vulnerabili, si sia trasformato in qualcosa di anomalo. Ricolfi sostiene che questa metamorfosi ha prodotto effetti opposti a quelli originariamente desiderati. Invece di favorire l’inclusione, ha portato a una drastica limitazione della libertà di espressione. Questo processo ha facilitato l’emergere di una nuova élite, caratterizzata da autoreferenzialità e da un significativo distacco dalla realtà dei ceti popolari. L’autore identifica elementi di irrazionalità nelle manifestazioni contemporanee del politicamente corretto. E sceglie di illustrare il fenomeno attraverso una serie di esempi concreti, preferendo così un approccio empirico basato sull’osservazione diretta piuttosto che tentare di fornire una definizione teorica rigida del fenomeno.
«Il follemente corretto non si limita a minare la libertà di espressione, ma incide […] sulla coesione sociale, rivoluzionando i rapporti fra classi e ceti». Il follemente corretto «sta promuovendo l’ascesa di una nuova élite, che include soprattutto due grandi categorie. Da un lato le “vestali della Neolingua”, ossia il vasto mondo della comunicazione che presidia tutti i gangli del potere nell’informazione […]. Dall’altro le “lobby del Bene”, ossia la rete […] degli attivisti che […] cercano di imporre i propri punti di vista ai poteri che contano, ma anche di portare la nuova religione tra la gente comune». Il risultato? «Un allargamento di tutte le principali fratture sociali. Le donne hanno visto evaporare una parte delle loro conquiste, messe a repentaglio dall’attivismo trans. I drammi degli ipersfruttati – l’esercito di 3,5 milioni di para-schiavi che fanno girare la “società signorile di massa” – sono caduti nell’oblio più totale».
Da un lato, il follemente corretto ha allargato i confini dell’élite includendo nuove figure professionali come comunicatori, burocrati e attivisti. Dall’altro, ha portato alla marginalizzazione della maggioranza delle persone che non partecipano a questo sofisticato sistema di codici e comportamenti. Ciò ha creato una divisione sempre più marcata nella società, dove l’adesione alle sofisticate meraviglie del follemente corretto è diventata un criterio di inclusione o esclusione sociale, contribuendo ad ampliare il divario tra l’élite e il resto della popolazione. «Grazie al follemente corretto, il sogno dell’inclusione si è capovolto nel suo contrario, aprendo la via ai più inattesi, indesiderati, e indesiderabili processi di esclusione». La questione dei pronomi ha subito una notevole evoluzione negli ultimi anni. Se inizialmente si limitava all’ambito accademico e riguardava l’uso del maschile in riferimento alle donne, oggi si è espansa fino a includere ogni identità non standard, imponendo agli altri l’obbligo di utilizzarlo.
Questo dibattito appare distante dalla realtà quotidiana della maggior parte della popolazione, che affronta sfide ben più concrete e urgenti. La guerra dei pronomi sta amplificando il divario tra élite e popolo, manifestandosi parallelamente ad altre controversie culturali come la rimozione dei simboli religiosi tradizionali (presepi, recite natalizie, canzoni). È interessante notare come queste iniziative vengano spesso giustificate come forma di rispetto verso altre culture nonostante non ci siano evidenze che questi simboli risultino realmente offensivi – così come nessun europeo si sente offeso dai simboli religiosi quando visita paesi a maggioranza musulmana. Il linguaggio stesso sta subendo una radicale trasformazione, spiega Ricolfi. La parola “donna” è diventata controversa, mentre termini considerati offensivi vengono sistematicamente sostituiti. Parole come “brutto” o “matto” vengono eliminate. “Grasso” viene sostituito con “enorme”. “Femmina” con “donna”. “Mamma e papà” con “genitori”. Questa tendenza si estende anche al campo artistico e culturale.
Nel 2019, i dipinti di Paul Gauguin alla National Gallery di Londra sono stati contestati per la sua relazione con una quattordicenne tahitiana. A Milano la statua di Indro Montanelli è stata ripetutamente vandalizzata. Questi episodi evidenziano come il follemente corretto stia influenzando non solo il linguaggio, ma anche la nostra percezione e valutazione del patrimonio storico e artistico. «Morale della favola: nessuna opera del passato è al sicuro, finché non impareremo a giudicare le opere in sé, separandole dai loro autori». Come se non bastasse, commenta l’autore, «oggi innumerevoli legislatori del linguaggio, per giunta spesso in disaccordo fra loro, ci spiegano quali termini usare per parlare con rispetto di chi ha qualche inconveniente fisico o mentale più o meno grave e più o meno permanente». Da un lato, si assiste a una continua espansione della lista di parole “inappropriate”. Dall’altro lato, emerge una selettività preoccupante nell’indignazione e nella protesta.
Per giunta, alcune violazioni dei diritti umani suscitano reazioni tiepide, come nel caso delle persecuzioni delle donne in Afghanistan sotto i talebani o le violenze e gli stupri subiti dalle donne israeliane durante gli attacchi di Hamas. Questa disparità di trattamento suggerisce l’esistenza di una categorizzazione implicita tra “donne meritevoli” e “donne non meritevoli” di protezione e ricordo. Tale selettività nell’applicazione dei principi femministi rivela una deriva ideologica che Ricolfi interpreta come una forma di “para-razzismo”, di cui l’antisemitismo rappresenterebbe una manifestazione particolare. Questa contraddizione mette in luce come il movimento femminista contemporaneo sembri allontanarsi dai suoi principi di universalità e uguaglianza, adottando invece criteri selettivi basati su appartenenze ideologiche o politiche. Possibile che né il mondo progressista, né i suoi partiti-guida, avvertano il pericolo? Si chiede l’autore.
È «la fine del sogno di Martin Luther King, che sperava che […] tutte le differenze ascritte, a partire dal colore della pelle e dal genere, sarebbero diventate irrilevanti, perché nella scelta delle persone avrebbero contato solo le qualità di ciascun individuo, senza riguardo per razza, etnia, sesso, nazionalità, credo religioso, orientamento sessuale. Nella cultura woke, al progetto di sconfiggere le discriminazioni con l’eguaglianza, subentra la pretesa di imporre l’eguaglianza attraverso discriminazioni. Il risultato è il razzismo alla rovescia». L’espansione continua delle politiche di protezione linguistica solleva questioni legittime sulla loro utilità e impatto sociale. Mentre un’élite si concentra sulla riforma del linguaggio, gran parte della popolazione affronta sfide quotidiane più concrete, sentendosi spesso giudicata e marginalizzata. «L’impressione è che, per molti politici di sinistra, gli attivisti e le lobby LGBT+ contino di più dei rispettivi elettorati, e che questa distorsione percettiva li renda […] autolesionisti».
Il follemente corretto «è una forma estrema di costrizione linguistica» degna di George Orwell. Nel socialismo inglese, profetica figurazione dell’attuale cultura woke, la diffusione universale della Neolingua e la scomparsa dell’Archelingua hanno lasciato spazio a un solo pensiero possibile. «Il cittadino degli anni venti del XXI secolo, specie se appartiene alle ultime generazioni, differisce dai suoi predecessori per una serie di tratti psicologici che lo predispongono». «Il più importante, probabilmente, è l’insicurezza che scaturisce dal confronto, continuo e competitivo, con i membri delle comunità di cui si fa parte. La possibilità, grazie alle versioni più evolute dello smartphone, di far circolare con estrema facilità ogni sorta di testi, immagini e video». L’era contemporanea è caratterizzata da due fenomeni interconnessi: il vittimismo e una crescente suscettibilità. Come osservò Norberto Bobbio definendola “l’età dei diritti”, la nostra epoca ha visto il vittimismo diventare la naturale controparte psicologica della cultura dei diritti.
Tale tendenza, che Guia Soncini ha definito “era della suscettibilità”, si manifesta in due modi: una propensione a sentirsi offesi e un impulso a giudicare il comportamento altrui. Questo clima genera un effetto di “autozittimento”, dove le persone si autocensurano per timore di possibili ripercussioni. Il follemente corretto incontra però delle resistenze. I ceti popolari tendono a ignorarne le prescrizioni, attirando su di sé il disprezzo dell’élite. La dinamica che si viene a creare rivela una profonda frattura sociale. Da un lato un sistema di norme comportamentali più stringenti, dall’altro una resistenza passiva che si manifesta attraverso il rifiuto di conformarsi a queste regole. Questo contrasto evidenzia come il follemente corretto, invece di promuovere l’inclusione sociale, finisca per accentuare le divisioni. «Quel che ieri era ancora lecito oggi non lo è più; e quel che oggi è lecito domani potrebbe smettere di esserlo».
Perché è tanto difficile resistere? «Il primo ostacolo è lo stesso che, in tanti paesi occidentali, ha incontrato l’opposizione al comunismo. Se ci abbiamo messo più di mezzo secolo a capire che il comunismo era una cattiva idea, è perché le sue intenzioni dichiarate […] apparivano buone. […] La medesima cosa sta succedendo con il politicamente corretto e la cultura woke. Politici e intellettuali, ma anche tanti comuni cittadini, non osano contrastare il politicamente corretto semplicemente per il fatto che i suoi fini dichiarati appaiono nobili, esattamente come ai loro padri tali parevano i fini del comunismo […]. Chi poteva ieri opporsi al sogno dell’eguaglianza? E chi può oggi opporsi a quello della Social Justice, che ne è semplicemente la versione aggiornata?» Questo spiega perché la resistenza gioca sempre in difesa. «Opporsi frontalmente non è possibile».
Il secondo ostacolo è la destra. Personaggi come Matteo Salvini e Roberto Vannacci, con il loro continuo provocare e offendere, funzionano come alleati del follemente corretto. «Che li può usare come prove a contrario delle proprie buone ragioni. Come a dire: se l’alternativa al follemente corretto sono loro, allora teniamoci il follemente corretto». Il dissenso non ha ancora elaborato un pensiero alternativo. Il terzo elemento: «La capacità di auto-replicazione del follemente corretto». Inoltre, «ha la capacità di replicarsi producendo continuamente varianti di se stesso, che allargano indefinitamente il dizionario delle espressioni proibite». Oggi assistiamo ad una moltiplicazione dei termini proibiti. «Il progetto del follemente corretto è un progetto totale, che ambisce a plasmare la società intera». C’è un “ascolto estremo”, secondo Ricolfi, «ovvero di attenzione anche alle più improbabili richieste di posizionamento corretto in tutti i campi».
Inoltre, «il coefficiente di penetrazione del follemente corretto non è il medesimo in tutti i ceti sociali e in tutti gli ambienti […]. Tendenzialmente, il follemente corretto piace agli strati alti e ai “ceti medi riflessivi”, istruiti e urbanizzati. Mentre dispiace, o lascia indifferenti, gli strati popolari, a bassa istruzione, spesso collocati alla periferia del sistema […]. Ma è una superiorità morale diversa da quella classica, che riguardava essenzialmente gli esponenti della sinistra, antipatici perché prigionieri del “complesso dei migliori”». «Oggi il sentimento di superiorità morale è più diffuso e capillare di allora, perché all’élite morale cerca di appartenere chiunque dell’indignazione cerchi di fare il proprio biglietto da visita, in rete e fuori della rete». Secondo Ricolfi, il follemente corretto è un sistema pieno di falle logiche. La prima falla «è l’assenza di vincoli logici o semantici nella catena di libere associazioni che via via squalifica sempre nuove parole».
Poi, «una seconda falla del follemente corretto riguarda l’individuazione delle categorie protette e la natura della protezione. Inizialmente, la protezione consisteva nella punizione degli atti di incitamento all’odio, alla violenza o alla discriminazione motivati da razza, etnia, nazionalità, fede religiosa. Il crimine era l’incitamento a odio-violenza-discriminazione, le categorie protette coincidevano con determinati gruppi sociali definiti da alcuni». La terza falla: «Il follemente corretto non è in grado di impedire i conflitti – talora asprissimi – che la protezione di determinate minoranze può suscitare. il follemente corretto è un caposaldo della sinistra odierna. «Di qui un sottile filo di speranza: i dirigenti della sinistra potrebbero anche, prima o poi, rendersi conto del guaio in cui si sono cacciati, e innestare la retromarcia». «Il follemente corretto crea un baratro culturale e psicologico fra i ceti istruiti, tendenzialmente benestanti e urbanizzati, e i ceti a bassa istruzione, tendenzialmente svantaggiati, e spesso insediati in realtà marginali».
Amedeo Gasparini
Il follemente corretto di Luca Ricolfi (La nave di Teseo 2024) analizza l’evoluzione e la degenerazione del politicamente corretto. L’autore evidenzia come questo fenomeno, nato negli anni Settanta con l’intento di promuovere coesione sociale e tutelare i soggetti più vulnerabili, si sia trasformato in qualcosa di anomalo. Ricolfi sostiene che questa metamorfosi ha prodotto effetti opposti a quelli originariamente desiderati. Invece di favorire l’inclusione, ha portato a una drastica limitazione della libertà di espressione. Questo processo ha facilitato l’emergere di una nuova élite, caratterizzata da autoreferenzialità e da un significativo distacco dalla realtà dei ceti popolari. L’autore identifica elementi di irrazionalità nelle manifestazioni contemporanee del politicamente corretto. E sceglie di illustrare il fenomeno attraverso una serie di esempi concreti, preferendo così un approccio empirico basato sull’osservazione diretta piuttosto che tentare di fornire una definizione teorica rigida del fenomeno.
«Il follemente corretto non si limita a minare la libertà di espressione, ma incide […] sulla coesione sociale, rivoluzionando i rapporti fra classi e ceti». Il follemente corretto «sta promuovendo l’ascesa di una nuova élite, che include soprattutto due grandi categorie. Da un lato le “vestali della Neolingua”, ossia il vasto mondo della comunicazione che presidia tutti i gangli del potere nell’informazione […]. Dall’altro le “lobby del Bene”, ossia la rete […] degli attivisti che […] cercano di imporre i propri punti di vista ai poteri che contano, ma anche di portare la nuova religione tra la gente comune». Il risultato? «Un allargamento di tutte le principali fratture sociali. Le donne hanno visto evaporare una parte delle loro conquiste, messe a repentaglio dall’attivismo trans. I drammi degli ipersfruttati – l’esercito di 3,5 milioni di para-schiavi che fanno girare la “società signorile di massa” – sono caduti nell’oblio più totale».
Da un lato, il follemente corretto ha allargato i confini dell’élite includendo nuove figure professionali come comunicatori, burocrati e attivisti. Dall’altro, ha portato alla marginalizzazione della maggioranza delle persone che non partecipano a questo sofisticato sistema di codici e comportamenti. Ciò ha creato una divisione sempre più marcata nella società, dove l’adesione alle sofisticate meraviglie del follemente corretto è diventata un criterio di inclusione o esclusione sociale, contribuendo ad ampliare il divario tra l’élite e il resto della popolazione. «Grazie al follemente corretto, il sogno dell’inclusione si è capovolto nel suo contrario, aprendo la via ai più inattesi, indesiderati, e indesiderabili processi di esclusione». La questione dei pronomi ha subito una notevole evoluzione negli ultimi anni. Se inizialmente si limitava all’ambito accademico e riguardava l’uso del maschile in riferimento alle donne, oggi si è espansa fino a includere ogni identità non standard, imponendo agli altri l’obbligo di utilizzarlo.
Questo dibattito appare distante dalla realtà quotidiana della maggior parte della popolazione, che affronta sfide ben più concrete e urgenti. La guerra dei pronomi sta amplificando il divario tra élite e popolo, manifestandosi parallelamente ad altre controversie culturali come la rimozione dei simboli religiosi tradizionali (presepi, recite natalizie, canzoni). È interessante notare come queste iniziative vengano spesso giustificate come forma di rispetto verso altre culture nonostante non ci siano evidenze che questi simboli risultino realmente offensivi – così come nessun europeo si sente offeso dai simboli religiosi quando visita paesi a maggioranza musulmana. Il linguaggio stesso sta subendo una radicale trasformazione, spiega Ricolfi. La parola “donna” è diventata controversa, mentre termini considerati offensivi vengono sistematicamente sostituiti. Parole come “brutto” o “matto” vengono eliminate. “Grasso” viene sostituito con “enorme”. “Femmina” con “donna”. “Mamma e papà” con “genitori”. Questa tendenza si estende anche al campo artistico e culturale.
Nel 2019, i dipinti di Paul Gauguin alla National Gallery di Londra sono stati contestati per la sua relazione con una quattordicenne tahitiana. A Milano la statua di Indro Montanelli è stata ripetutamente vandalizzata. Questi episodi evidenziano come il follemente corretto stia influenzando non solo il linguaggio, ma anche la nostra percezione e valutazione del patrimonio storico e artistico. «Morale della favola: nessuna opera del passato è al sicuro, finché non impareremo a giudicare le opere in sé, separandole dai loro autori». Come se non bastasse, commenta l’autore, «oggi innumerevoli legislatori del linguaggio, per giunta spesso in disaccordo fra loro, ci spiegano quali termini usare per parlare con rispetto di chi ha qualche inconveniente fisico o mentale più o meno grave e più o meno permanente». Da un lato, si assiste a una continua espansione della lista di parole “inappropriate”. Dall’altro lato, emerge una selettività preoccupante nell’indignazione e nella protesta.
Per giunta, alcune violazioni dei diritti umani suscitano reazioni tiepide, come nel caso delle persecuzioni delle donne in Afghanistan sotto i talebani o le violenze e gli stupri subiti dalle donne israeliane durante gli attacchi di Hamas. Questa disparità di trattamento suggerisce l’esistenza di una categorizzazione implicita tra “donne meritevoli” e “donne non meritevoli” di protezione e ricordo. Tale selettività nell’applicazione dei principi femministi rivela una deriva ideologica che Ricolfi interpreta come una forma di “para-razzismo”, di cui l’antisemitismo rappresenterebbe una manifestazione particolare. Questa contraddizione mette in luce come il movimento femminista contemporaneo sembri allontanarsi dai suoi principi di universalità e uguaglianza, adottando invece criteri selettivi basati su appartenenze ideologiche o politiche. Possibile che né il mondo progressista, né i suoi partiti-guida, avvertano il pericolo? Si chiede l’autore.
È «la fine del sogno di Martin Luther King, che sperava che […] tutte le differenze ascritte, a partire dal colore della pelle e dal genere, sarebbero diventate irrilevanti, perché nella scelta delle persone avrebbero contato solo le qualità di ciascun individuo, senza riguardo per razza, etnia, sesso, nazionalità, credo religioso, orientamento sessuale. Nella cultura woke, al progetto di sconfiggere le discriminazioni con l’eguaglianza, subentra la pretesa di imporre l’eguaglianza attraverso discriminazioni. Il risultato è il razzismo alla rovescia». L’espansione continua delle politiche di protezione linguistica solleva questioni legittime sulla loro utilità e impatto sociale. Mentre un’élite si concentra sulla riforma del linguaggio, gran parte della popolazione affronta sfide quotidiane più concrete, sentendosi spesso giudicata e marginalizzata. «L’impressione è che, per molti politici di sinistra, gli attivisti e le lobby LGBT+ contino di più dei rispettivi elettorati, e che questa distorsione percettiva li renda […] autolesionisti».
Il follemente corretto «è una forma estrema di costrizione linguistica» degna di George Orwell. Nel socialismo inglese, profetica figurazione dell’attuale cultura woke, la diffusione universale della Neolingua e la scomparsa dell’Archelingua hanno lasciato spazio a un solo pensiero possibile. «Il cittadino degli anni venti del XXI secolo, specie se appartiene alle ultime generazioni, differisce dai suoi predecessori per una serie di tratti psicologici che lo predispongono». «Il più importante, probabilmente, è l’insicurezza che scaturisce dal confronto, continuo e competitivo, con i membri delle comunità di cui si fa parte. La possibilità, grazie alle versioni più evolute dello smartphone, di far circolare con estrema facilità ogni sorta di testi, immagini e video». L’era contemporanea è caratterizzata da due fenomeni interconnessi: il vittimismo e una crescente suscettibilità. Come osservò Norberto Bobbio definendola “l’età dei diritti”, la nostra epoca ha visto il vittimismo diventare la naturale controparte psicologica della cultura dei diritti.
Tale tendenza, che Guia Soncini ha definito “era della suscettibilità”, si manifesta in due modi: una propensione a sentirsi offesi e un impulso a giudicare il comportamento altrui. Questo clima genera un effetto di “autozittimento”, dove le persone si autocensurano per timore di possibili ripercussioni. Il follemente corretto incontra però delle resistenze. I ceti popolari tendono a ignorarne le prescrizioni, attirando su di sé il disprezzo dell’élite. La dinamica che si viene a creare rivela una profonda frattura sociale. Da un lato un sistema di norme comportamentali più stringenti, dall’altro una resistenza passiva che si manifesta attraverso il rifiuto di conformarsi a queste regole. Questo contrasto evidenzia come il follemente corretto, invece di promuovere l’inclusione sociale, finisca per accentuare le divisioni. «Quel che ieri era ancora lecito oggi non lo è più; e quel che oggi è lecito domani potrebbe smettere di esserlo».
Perché è tanto difficile resistere? «Il primo ostacolo è lo stesso che, in tanti paesi occidentali, ha incontrato l’opposizione al comunismo. Se ci abbiamo messo più di mezzo secolo a capire che il comunismo era una cattiva idea, è perché le sue intenzioni dichiarate […] apparivano buone. […] La medesima cosa sta succedendo con il politicamente corretto e la cultura woke. Politici e intellettuali, ma anche tanti comuni cittadini, non osano contrastare il politicamente corretto semplicemente per il fatto che i suoi fini dichiarati appaiono nobili, esattamente come ai loro padri tali parevano i fini del comunismo […]. Chi poteva ieri opporsi al sogno dell’eguaglianza? E chi può oggi opporsi a quello della Social Justice, che ne è semplicemente la versione aggiornata?» Questo spiega perché la resistenza gioca sempre in difesa. «Opporsi frontalmente non è possibile».
Il secondo ostacolo è la destra. Personaggi come Matteo Salvini e Roberto Vannacci, con il loro continuo provocare e offendere, funzionano come alleati del follemente corretto. «Che li può usare come prove a contrario delle proprie buone ragioni. Come a dire: se l’alternativa al follemente corretto sono loro, allora teniamoci il follemente corretto». Il dissenso non ha ancora elaborato un pensiero alternativo. Il terzo elemento: «La capacità di auto-replicazione del follemente corretto». Inoltre, «ha la capacità di replicarsi producendo continuamente varianti di se stesso, che allargano indefinitamente il dizionario delle espressioni proibite». Oggi assistiamo ad una moltiplicazione dei termini proibiti. «Il progetto del follemente corretto è un progetto totale, che ambisce a plasmare la società intera». C’è un “ascolto estremo”, secondo Ricolfi, «ovvero di attenzione anche alle più improbabili richieste di posizionamento corretto in tutti i campi».
Inoltre, «il coefficiente di penetrazione del follemente corretto non è il medesimo in tutti i ceti sociali e in tutti gli ambienti […]. Tendenzialmente, il follemente corretto piace agli strati alti e ai “ceti medi riflessivi”, istruiti e urbanizzati. Mentre dispiace, o lascia indifferenti, gli strati popolari, a bassa istruzione, spesso collocati alla periferia del sistema […]. Ma è una superiorità morale diversa da quella classica, che riguardava essenzialmente gli esponenti della sinistra, antipatici perché prigionieri del “complesso dei migliori”». «Oggi il sentimento di superiorità morale è più diffuso e capillare di allora, perché all’élite morale cerca di appartenere chiunque dell’indignazione cerchi di fare il proprio biglietto da visita, in rete e fuori della rete». Secondo Ricolfi, il follemente corretto è un sistema pieno di falle logiche. La prima falla «è l’assenza di vincoli logici o semantici nella catena di libere associazioni che via via squalifica sempre nuove parole».
Poi, «una seconda falla del follemente corretto riguarda l’individuazione delle categorie protette e la natura della protezione. Inizialmente, la protezione consisteva nella punizione degli atti di incitamento all’odio, alla violenza o alla discriminazione motivati da razza, etnia, nazionalità, fede religiosa. Il crimine era l’incitamento a odio-violenza-discriminazione, le categorie protette coincidevano con determinati gruppi sociali definiti da alcuni». La terza falla: «Il follemente corretto non è in grado di impedire i conflitti – talora asprissimi – che la protezione di determinate minoranze può suscitare. il follemente corretto è un caposaldo della sinistra odierna. «Di qui un sottile filo di speranza: i dirigenti della sinistra potrebbero anche, prima o poi, rendersi conto del guaio in cui si sono cacciati, e innestare la retromarcia». «Il follemente corretto crea un baratro culturale e psicologico fra i ceti istruiti, tendenzialmente benestanti e urbanizzati, e i ceti a bassa istruzione, tendenzialmente svantaggiati, e spesso insediati in realtà marginali».
Amedeo Gasparini