Il 25 giugno di quarantacinque anni fa – era il lontano 1974 – a farsi spazio, poco per la verità, nelle edicole italiane, tra giornali decennali e brillanti settimanali, comparve un nuovo protagonista; un foglio quotidiano che avrebbe fatto discutere negli anni a venire. Una nuova pubblicazione che per molto tempo sarebbe stata subalterna rispetto ai vari Corriere della Sera o Stampa. Un lenzuolo cartaceo piegato e nascosto negli anfratti del cappottone – e non dell’eskimo – di chi si “azzardava” a comprarlo. Il Giornale di Indro Montanelli compie oggi il suo primo quasi mezzo secolo: per anni è stato l’orientamento quotidiano di un centinaio di migliaia e mezzo di lettori, che nello storico giornalista – e nei suoi illustri collaboratori – trovavano una bussola politica e culturale leggendo la “caravella liberale”; una piccola imbarcazione nata dal nulla, ma non sul nulla. Il Giornale non era semplicemente “il Giornale”: certo, era uno dei più ricchi in termini di firme illustri e internazionali, ma era pienamente identificato nel suo direttore, che gli conferiva un’indimenticabile energia e vitalità; anche nella vecchiaia più estrema. Per le città d’Italia si diceva: «Mi dia il giornale di Montanelli», quasi con un tono di sfida nei confronti dell’edicolante che, in diverse occasioni e specialmente nei primi anni, tentava di boicottarne l’acquisto.
Tutto era iniziato nel tardo autunno del 1973, con un’intervista a Il Mondo di Montanelli rilasciata al giovane Cesare Lanza; questi, a detta dell’intervistato, la “levatrice”, visti poi gli esiti successivi. Ai vertici di Via Solferino – sede del Corriere della Sera dove Montanelli lavorava e diretto da poco meno di due anni da Piero Ottone – le critiche che il giornalista sollevava circa la gestione e l’orientamento del giornale non furono gradite e non vennero digerite. Ricorda anni dopo in Ecco la (nostra) stampa, bellezza lo stesso Lanza: «La conversazione fu esplosiva […] Montanelli mi regalò affermazioni importanti […] Ammise che non condivideva nulla dell’indirizzo che Ottone aveva dato al giornale. Disse che il Corriere aveva tradito il suo pubblico fondamentale, la buona e produttiva borghesia lombarda, con innovazioni e aperture arbitrarie – in primo luogo al Partito Comunista – non tollerabili. Disse che era la proprietaria Giulia Maria Crespi (lui, che l’aveva contestata anche in passato, la definì “la zarina Giuda Maria”) a ispirare e suggerire a Ottone il da farsi.» E dopo trentasette anni di onorato servizio al Corriere, Montanelli venne cacciato dal giornale di Brera. Da subito si scatenarono le redazioni di mezza Italia: avere sul proprio giornale la firma di una leggenda della carta stampata era imperativo per chi volesse innalzare il proprio numero di copie vendute.
Nel frattempo, il giovane Enzo Bettiza, firma illustre già nei primi anni Sessanta – inviato in mezza Europa ed esperto di quella centrale – rimase al Corriere fino agl’inizi del 1974 per reclutare nuove leve per un nuovo progetto. Ricorda nel suo Via Solferino – il noto pamphlet del “Barone” (così era chiamato) di Spalato – che «l’importante era coordinare l’uscita: formare un blocco compatto, scaglionare le dimissioni a scatti ravvicinati l’una dall’altra, dando all’evento il volto non episodico, diciamo pure storico, che esso voleva avere […] Fui tra i primi a rassegnare le dimissioni all’inizio di febbraio […] Ottone […] lesse e rilesse con aria assorta le poche righe ufficiali della lettera che personalmente ero venuto a consegnargli […] e, sforzandosi di sorridere, disse: “Il giornalismo è proprio un porto di mare. Chi viene, chi va. Ora sei tu ad andartene e le nostre strade di nuovo si separano. La vita è così, e non dobbiamo serbarci rancore.”»
Niente rancore, ma i giornalisti che seguirono Montanelli e Bettiza – assieme agli altri fondatori Guido Piovene e Gianni Granzotto – furono a decine e non provenivano solo dal Corriere della Sera, ma anche dal Corriere d’Informazione, dall’Europeo, da Epoca, dalla Stampa, dal Giorno. Il nucleo di giornalisti – osteggiati da gran parte dei colleghi – si stabilì quindi al Palazzo dei giornali di Piazza Cavour a Milano, dove una nuova “creatura cartacea” nacque con il nuovo anno. Il 25 giugno 1974, dopo qualche settimana a lavorare sui numeri zero – le prove tipografiche di come sarà il quotidiano –, il Giornale Nuovo (così si chiamava il Giornale visto che la testata “il Giornale” era già registrata presso il tribunale di Varese) sopravvisse con successo al battesimo del fuoco in edicola. Il primo numero, oggi pezzo da museo del giornalismo, apriva sulla politica: “Fanfani conta amici e nemici”. All’inizio della sua avventura, il Giornale montanelliano era un prodotto agile, ispirato anche al Corriere (detto, oggi come allora, la “Cassazione del giornalismo”). Per stessa ammissione di due dei fondatori – Mario Cervi e Gian Galeazzo Biazzi Vergani nei diari sulla direzione Montanelli – il primo Giornale era un po’ bruttino a livello grafico, ma pazienza: erano gli anni Settanta. Il piombo che dava forma alla lettera su carta era quello compresso nelle pallottole che i terroristi – di sinistra e di destra – sparavano anche contro i giornalisti. Quello che contava erano le idee, non il layout.
Il nome della testata venne suggerito dall’amico di Montanelli Giorgio Soavi, visto che il direttore voleva chiamarlo La Posta, appellativo che poteva rivelarsi un insuccesso editoriale. «Indro, ma cosa vai ad impelagarti nella fondazione di un nuovo giornale? Hai sessantacinque anni! Chi te lo fa fare? Goditi la pensione», dicevano alcuni. Era vero che le speranze di vita erano più basse allora rispetto ad oggi, ma i detrattori del fondatore del Giornale dimenticarono che i Montanelli sono gente longeva: mamma Maddalena e papà Sestilio superarono i novant’anni. Destino analogo per il “giovane” sessantacinquenne di allora: toscanamente testardo e cocciuto, volenteroso e controcorrente, operoso e anticonformista. Decise quindi d’imbarcarsi nell’avventura di fondare e dirigere un giornale (una delle sue tante “vite”) non tanto per “farla pagare” al Corriere della Sera. Che poteva fare un giornalista – seppur famoso – contro la portaerei del giornalismo italiano, anch’essa all’epoca, ultranovantenne? La sfida del Giornale di allora nacque altresì per dare una voce ai senza voce: uno sparuto popolo (anarco-)liberal-conservatore, che non vedeva più nel quotidiano di Via Solferino il fido compagno in battaglie borghesi.
È l’anziano Giorgio Torelli – oggi novantenne – che ne Il padreterno e Montanelli definisce il primissimo Giornale un “vascello corsaro”. Ed era stato Montanelli in persona – a cui Torelli era legato da una stima profonda – a presentargli il nuovo progetto mentre i due camminavano «nella bruma milanese di Via Senato» a Milano. E il futuro direttore: «Ho sentito, a sessantaquattr’anni, arrivarmi la cartolina precetto. È stata la coscienza a impormi di dar battaglia. Le battaglie si fanno in quanto degne. Non in vista di una vittoria.»
Amedeo Gasparini