C’è un fantasma che si aggira per il mondo contemporaneo: il popolo. Categoria imprendibile ma desideratissima, è oggi al centro di ogni discorso politico, sociale e culturale. Qualcuno ha provato ad afferrarla aggiungendo una locuzione (“della Rete”) e ci ha costruito sopra un’insperata carriera parlamentare. Altri l’hanno evocata da destra come antidoto allo snobismo di sinistra. Altri ancora l’hanno rivendicata disperatamente da sinistra, in cerca di un’identità perduta. Ma nessuno, finora, ha dimostrato di considerare il popolo una collettività, formata da persone. Il risultato è un sistema in cui è sempre più difficile prendere una posizione a causa di un opportunistico rimescolamento di valori e idee. Cosa c’entra tutto questo con la notte degli Oscar appena trascorsa? Forse nulla, o forse quello che è successo poche ore fa non è che una curiosa metafora di quanto sta avvenendo a livello storico.
Andiamo con ordine. La corsa alle statuette è stata segnata in un primo momento dal tifo sfegatato per un titolo come A Star Is Born, terzo remake del classico È nata una stella, diretto nel 1937 da William A. Wellman. Otto candidature facevano ben sperare per quello che è diventato in poco tempo il maggior incasso della storia per la categoria “film con cantante protagonista”. “Film del popolo”, si disse subito, con una smorfia di disprezzo verso quella buona fetta di critica che non aveva promosso (o “capito”) l’opera prima di Bradley Cooper. Ma mentre Lady Gaga era attesa sul tappeto rosso per vendicare l’orgoglio pop ferito da decenni di eteree Nicole Kidman ed Emme Stone, pian piano la stella del film si è eclissata, portando al deludente risultato di un solo Oscar ricevuto – e per giunta quasi scontato – per la Miglior canzone (Shallow).
L’astinenza da “film del popolo” è comunque durata poco, perché nella querelle si è inserita la superpotenza dello streaming, Netflix. Ovvero, la società che in una manciata di anni ha scompaginato lo show business ribaltando le logiche della fruizione e della distribuzione cinematografica. Facendo del popolo – che non va al cinema perché costa caro, che vuole scegliere senza avere l’impressione di subire imposizioni – il suo target e la sua ragion d’essere. La zampata successiva è stata quella del mecenatismo: accogliere tutti i registi ormai ostili alle logiche degli studios o in cerca di libertà creativa, producendo pellicole sempre più svincolate dall’elitaria tribuna dei festival di cinema o delle sale d’essai. Roma di Alfonso Cuarón, ad esempio, ha sì conquistato il Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia, prima della corsa agli Oscar, ma è stato distribuito anzitutto in streaming (“per tutti”) e solo in un secondo momento in sala. Creando così l’idea di un’opera d’autore più raffinata degli altri titoli in catalogo, ma “del popolo” perché in lotta contro un sistema distributivo granitico. Senza contare che anche il soggetto – la storia dell’umile tata di Cuarón, Cleo, nel Messico degli anni Settanta – si adattava alla perfezione all’idea di una piattaforma aperta alla qualità, oltre che alla quantità. Un algoritmo dal volto umano, insomma, destinato a infrangere antiche barriere culturali. Meritati sono stati gli Oscar ricevuti come miglior film in lingua straniera, per la miglior regia e per la fotografia (sempre curata dallo stesso Cuarón), virtuosistico concerto in bianco e nero di piani sequenza, nonché fatica in solitaria del regista messicano, di solito circondato da grandi comparti produttivi.
Ma neanche questo è bastato a sbaragliare del tutto la concorrenza. Perché Netflix non ha fatto i conti con l’impatto che certi generi possono ancora avere sul pubblico, spingendolo a lasciare divano e computer per recarsi in una sala cinematografica. La canzone popolare si sta dimostrando, ad esempio, un’impareggiabile medicina contro la disaffezione degli spettatori più giovani verso il grande schermo. Perché riafferma il bisogno di una collettività, proprio come i concerti (che infatti, a differenza del mercato discografico, non risentono della crisi). In quest’ottica, non ha stupito il successo di A Star Is Born e soprattutto quello di Bohemian Rhapsody, la biografia di Freddie Mercury, vera sorpresa di questi Academy Awards. Una pellicola dalla lavorazione travagliata (il regista Bryan Singer è stato licenziato verso la fine delle riprese) e lontana tanto dai crismi del film d’autore quanto da quelli del film da Oscar. Certo, come in quest’ultimo filone, la vicenda del cantante dei Queen è stata edulcorata e tradotta in un linguaggio accessibile a tutta la famiglia; ma è soprattutto evidente il tentativo di mettere in primo piano la performance musicale rispetto al melodramma, creando una sorta di film concerto che trova nella sala il suo luogo d’elezione. Tanto è vero che dopo il successo straordinario di pubblico il film è stato riproposto in alcuni cinema con i sottotitoli, per consentire agli spettatori di cantare durante i numeri musicali. E l’Academy, appena “svecchiata” dall’ingresso di nuovi membri, ha voluto premiare l’operazione, che rivendica con orgoglio il proprio carattere popolare, esponendo senza remore la sua estetica kitsch e le sue semplificazioni. Nominato in 5 categorie, il film ha riportato ben 4 Oscar (uno per l’interpretazione mimetica di Rami Malek, e poi per il miglior montaggio, il miglior sonoro e il miglior montaggio sonoro).
Infine, lo sappiamo, gli ultimi anni sono stati segnati dalla polemica per gli #OscarsSoWhite: da allora, l’attenzione per titoli che rappresentino anche la comunità afroamericana è altissima. E ha portato quest’anno a infrangere un vero e proprio tabù, con l’inclusione tra la rosa dei titoli candidati a miglior film del primo cinecomic della storia degli Oscar: Black Panther, sull’omonimo supereroe nero della Marvel. Un traguardo che ovviamente strizza l’occhio anche al “popolo”, garantendo un riconoscimento artistico al genere commercialmente più redditizio del cinema contemporaneo. Anche se i premi ottenuti per le categorie tecniche (costumi, scenografia e colonna sonora) rappresentano soprattutto una vittoria della comunità black, applaudita calorosamente anche da Spike Lee, presente al Kodak Theatre con il suo BlackKklansman (miglior adattamento).
Con un verdetto che non ha voluto scontentare nessuno, celebrando il popolare, non poteva uscire a mani vuote il candidato che in maniera virtuosa ha provato a interpretare il bisogno di un cinema accessibile e aperto nel senso più nobile del termine: Green Book. Il film di Peter Farrelly ha riportato sul podio un genere da molto bistrattato agli Oscar, la commedia vintage, mettendo d’accordo il pubblico più tradizionalista con quello più giovane. Il merito è di una sceneggiatura – premiata – capace di rivitalizzare i cliché del road movie e di una coppia di attori (Mahershala Ali ha vinto come attore non protagonista) impareggiabile nel dipingere gli stereotipi razziali dell’America degli anni Sessanta, e in qualche caso dei nostri tempi. L’Oscar al Miglior film è così andato nelle mani di una produzione classica, ecumenica. In un’edizione fluida, priva di presentatori e simbolicamente di caste, in cui le ragioni del cinema d’autore erano sostenute da Netflix e quelle del blockbuster da Spike Lee, poteva andare anche peggio. Dopotutto ha vinto quello che Steven Spielberg, uno che di popolare se ne intende, ha definito il miglior «buddy movie dai tempi di Butch Cassidy». E non è poco.
Francesca Monti