«Uno dei fenomeni più curiosi della vita sociale italiana», scriveva Luigi Einaudi nel 1902, «è la tendenza alla esagerazione. Noi amiamo esagerare a scatti, ora in bene e ora in male. Qualche volta ci sembra di essere diventati gran signori ed ogni minimo indizio viene colto al volo e scrutato con intensità di sguardo per trovarvi le prove della nostra prossima grandezza.» Dove va l’Italia? È un’esagerazione dire che, semplicemente, “va male” da circa trent’anni nel binomio economia e politica? Quali sono le cosiddette emergenze che frenano il Belpaese?
Il 1989, anno cruciale per l’Europa, potrebbe aiutare a spiegare le difficili condizioni in cui il cosiddetto sistema-paese versa da anni: con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda molti scenari sociali, economici, culturali, geostrategici sono cambiati; per molti paesi in meglio, per altri in peggio. Se gli assetti internazionali sono stati alterati dalla fatidica data, a non cambiare sono state certe attitudini della cosiddetta società italiana. Claudio Cerasa (Abbasso i tollerati) cerca di spiegare il perché: «L’Italia è un paese dove i problemi veri spesso non vengono affrontati perché ci si concentra solo sulla ricerca di capri espiatori […] si parla troppo di moralismo, si parla poco di efficienza.» Un problema culturale, in fondo, quello di additare sempre “l’altro” per scrollarsi di dosso le proprie (parziali) responsabilità.
E sì che l’Italia avrebbe spazio di crescere, di volare in alto: il suo PIL è il quindici per cento dell’area Euro; non poco se consideriamo le condizioni da cui lo Stivale era partito nel 1945. Tre anni dopo, il reddito medio in Italia era di circa duecentotrenta Euro al mese per abitante, ma al contrario di oggi «l’Italia del 1948 contava anche su classi colte e produttive pienamente coinvolte nella rinascita del paese; […] ceti guidati dai propri valori», secondo Federico Fubini (Corriere della Sera, 28 agosto 2019). «La Repubblica italiana nasce con un tenore di vita medio di poco sotto a quello attuale della Costa d’Avorio, o della Cambogia»; poi la rinascita, il miracolo economico e la “lunga stagnazione” iniziata negli anni Novanta. In sostanza, l’Italia non cresce da oltre un quarto di secolo. E le motivazioni sono tante; la lista dei problemi e delle cosiddette emergenze che frenano e hanno frenato il Belpaese è ahinoi lunga.
Partiamo dall’economia. Innanzitutto, l’Italia registrava una bassa crescita anche prima dell’entrata nella zona Euro; tra il 1992 e il 1995 ci fu un forte aumento del debito pubblico e lo spread tra Italia e Germania arrivò oltre i seicento punti. Molti dei problemi dell’economia italiana sono strutturali: ad esempio, secondo Carlo Cottarelli (I sette peccati capitali dell’economia italiana) un ruolo cattivo in tal senso lo gioca l’enorme evasione fiscale (un quarto di tutta l’IVA europea evasa è italiana) che danneggia l’Italia per tre motivi. L’Italia è un paese di lavoratori autonomi (è più facile evadere); un paese di piccole imprese; e, terzo, l’uso del contante è più diffuso che all’estero. Stimata attorno al tredici per cento del PIL, l’evasione è generata da due elementi: 1) evasione per servizi scarsi (il cattivo funzionamento della PA che costa decine di miliardi di Euro l’anno) e 2) il fatto che si rischia poco quando si evade (da aggiungere che poi in Italia sembra non esserci una grande riprovazione sociale nei confronti degli evasori).
Evasione poi fa rima con corruzione. Donatella della Porta (Un paese anormale) spiega che quest’ultima «modifica la stessa natura, oltre che gli esiti della democrazia […] premiando non la capacità di rappresentare i bisogni collettivi, ma le doti di spregiudicatezza […] Corruzione nella democrazia è anche corruzione della democrazia.» Storicamente, in molte realtà dell’Italia dei Comuni dei secoli passati l’occupante straniero dominante veniva pagato (corrotto) affinché non recasse disturbo ai potentati locali. Il risultato di questo costume è che oggi – senza padrone straniero – la corruzione in Italia costa circa sessanta miliardi di Euro l’anno, attorno al 3.5 per cento del PIL.
Altro problema-emergenza è l’enorme apparato burocratico italiano, che si traduce nell’ennesimo freno alla crescita, anche perché legato ad un enorme (ab)uso della spesa pubblica. Sempre Cottarelli: «Se è vero che i burocrati generano le regole, è anche vero che le regole generano i burocrati»; questi (tre milioni di impiegati) pagati dalle tasse dei cittadini. Se a ciò si somma l’inefficienza di molti burocrati e il costo delle rispettive pensioni, è chiaro che il Belpaese non può decollare o quantomeno emergere dal pantano. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 8 gennaio 2019) hanno spiegato che «consentire alle persone di andare in pensione prima, mentre l’aspettativa di vita si allunga, è un grande regalo agli elettori di oggi a scapito di quelli di domani. I lavoratori del futuro dovranno subire sui loro salari trattenute più elevate di quelle che si pagano oggi. Questo ridurrà i salari netti, aumenterà il costo del lavoro e quindi farà diminuire l’occupazione.»
Ma i problemi economici (sopra ne sono citati solo alcuni) non sono gli unici ad attanagliare l’Italia e ad incatenarla negli abissi della bassa crescita, conferendole lo status di paese in perenne emergenza. Se un paese è in perenne emergenza – a causa di troppe emergenze – non può crescere. Dal divario Nord-Sud (dove il PIL pro-capite del Meridione è del cinquantasei per cento rispetto a quello del Settentrione) alla bassa informazione («lo stato di disattenzione, sotto-informazione, distorsione percettiva e, infine, totale ignoranza dei pubblici di massa è scoraggiante», scriveva quarant’anni fa Giovanni Sartori). E poi ancora, bassa produttività, bassa natalità, bassa competitività, basso numero di laureati, bassi investimenti in scuola e ricerca, lenta trasformazione digitale e lenti procedimenti giudiziari, cuneo fiscale alto, disoccupazione giovanile alta, infrastrutture fatiscenti, carceri sovraffollate, blocco mobilità sociale, mancanza di meritocrazia …
Ascoltando alcuni leader politici, non si può che ridere a proposito del loro ossessivo additare l’immigrazione come il primo problema dell’Italia. Secondo il rapporto Eurispes del 2017, solo il 28.9 per cento degli italiani stima correttamente la presenza degli stranieri in Italia (che sono l’otto per cento della popolazione). In altri termini, più del settanta per cento degli italiani ha una percezione errata della quantità di stranieri presenti in Italia (questo dunque non consente di focalizzarsi sui problemi di cui sopra). Circa il trenta per cento degli italiani crede infatti che gli stranieri siano il doppio di quelli reali (circa il sedici per cento), mentre un altro quindici per cento crede che siano il quadruplo. Un problema sovra-stimato, un’emergenza sedata; dal 1° agosto 2017 fino al 31 luglio 2018 ci sono stati 42.700 sbarchi, contro i 182’877 dell’anno precedente (dati Viminale), cioè il 76.6% in meno. Ma molti cittadini non l’hanno percepito. Capire e identificare le “vere” emergenze per non togliere valore e significato al termine stesso della parola è necessario in un paese dove queste sono multiple.
Einaudi aveva ragione a dire che l’esagerazione fosse una costante italiana, tuttavia i problemi economici e le emergenze perenni sopradescritte non lo sono; casomai è il fenomeno migratorio l’unico elemento sovradimensionato ad arte da alcuni agitatori sociali. Ne deriva dunque che il primo problema da affrontare – e il fatto che l’intervento del secondo Presidente della Repubblica risalga a quasi centoventi anni fa ne è la conferma – è la natura culturale italiana. Prima di Einaudi, nel 1820, Giacomo Leopardi identificò la fragilità dell’assetto (culturale) della società italiana. «In Italia la società stessa, così scarsa com’ella è, è un mezzo di odio e di disunione […]; la società civile […] in Italia è tutta a danno ai costumi e al carattere morale, senza vantaggio alcuno.» Sembra scritto oggi, due secoli dopo. E nel frattempo i problemi del Belpaese si sono moltiplicati.
Amedeo Gasparini