È la volta di Lugano per lo spettacolo Vincent Van Gogh – L’odore assordante del bianco, basato sul testo di Stefano Massini, vincitore del Premio Riccione Teatro «Pier Vittorio Tondelli» nel 2005.
Lo spettacolo, diretto da Alessandro Maggi, si concentra sugli ultimi anni di vita di Van Gogh, quelli trascorsi nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy (1889-1890). Da qui l’espressione ossimorica che da il titolo dello spettacolo, e su cui si basa la splendida scenografia di Marta Crisolini Malatesta: l’ambientazione austera della clinica domina la scena, sulle cui pareti si staglia il “Campo di grano con volo di corvi” di Van Gogh, rigorosamente in bianco. Questa scelta cromatica è reiterata in tutti i dettagli scenografici: nella casacca trasandata che avvolge un magrissimo Vincent, nel letto da corsia dello stesso, e persino in una piccola pianta presente sulla scena.
Protagonista assoluto Alessandro Preziosi, nelle vesti del tormentato pittore olandese. L’attore napoletano non è caratterizzato da alcun tratto che lo riconduca a Vincent, tuttavia, vi ritroviamo molto di lui: lo riconosciamo nei suoi occhi stralunati che scrutano il vuoto, nei tremori (che rivelano l’ormai incontrastato predominio dei nervi sulla sua debole fisicità) e nei suoi accenni di iracondia, a cui si contrappongono momenti di totale calma, in cui sembra ritrovare la sua perduta lucidità mentale. Preziosi riesce a rappresentare appieno il dolore del pittore olandese, la sua delusione (derivata dalla petizione, firmata da alcuni cittadini di Arles, volta al suo internamento), nonché la rabbia e la disperazione, riconducibile a due dati: da un lato, alla consapevolezza del precario stato mentale in cui riversa e, dall’altro, al fatto di vedere ricondotta la sua umanità a una mera etichetta (individuo “socialmente placido”, questo è scritto nella porta della sua stanza, e solo questo sembrano vedere in lui le persone che lo circondano).
Ad intessere un intenso dialogo con lui è Theo, il fratello a lui più caro, che si è sempre prodigato per aiutarlo: emotivamente (i due intrattengono per tutta la vita un fitto scambio epistolare) ed economicamente (Theo ha sempre fornito al fratello i mezzi necessari per permettergli di proseguire la sua attività artistica). Nell’interpretazione di Massimo Nicolini emerge l’amorevolezza fraterna e, insieme, il dolore dello stesso, nel constatare la sofferenza fisica e mentale di Vincent. Momenti lieti e drammatici sono mescidati: Theo ricorda degli episodi felicemente bizzarri che vedono protagonista il fratello, ma uno di questi fa ripiombare Vincent nella malinconia.
A questo punto dello spettacolo emergono dei dettagli della vicenda di Van Gogh che lasciano piuttosto perplessi: nella proposta del drammaturgo Massini il pittore olandese è stato recluso nella clinica contro la sua volontà, ed è qui a lui vietato di dipingere, così come di leggere. Come noto, fu lo stesso Vincent a scegliere di andare nella clinica di Saint-Rémy, ove gli era permesso di intrattenere rapporti epistolari con il fratello (che non di rado gli spediva libri e giornali), nonché di continuare la sua produzione artistica (anche fuori dall’istituto, sotto tutela di un sorvegliante); è solo in un secondo momento, ossia quando il pittore ingerisce dei colori velenosi, che gli viene momentaneamente vietato di dipingere. Questa scelta poetica è discutibile in quanto, oltre a poter fuorviare gli spettatori meno informati, rischia di mettere in ombra la grande tragedia che caratterizza la vita di Vincent, ossia la grande consapevolezza della propria follia.
Geniale è invece l’espediente da cui prende l’avvio lo spettacolo, ossia la riflessione sul dolore che dovette provare un artista, noto per i colori vibranti delle proprie opere e che si nutriva (questa volta, metaforicamente) dei colori dei paesaggi che ammirava, ad essere recluso in un austero istituto, dove «il colore è una bestemmia».
Entrano poi in scena due infermieri dell’ospedale psichiatrico (impersonati da Alessio Genchi e Vincenzo Zampa) e il detestabile Dr. Vernon-Lazare (rappresentato da Roberto Manzi), un aspirante pittore che si pone come antagonista di Van Gogh. I tre accorrono nella stanza del pittore olandese attirati dalle sue grida, il quale spera finalmente di poter uscire dalla clinica, con l’aiuto di Theo, che avrebbe firmato il suo rilascio. Si scoprirà così che l’amato fratello era solo un’allucinazione visiva di Van Gogh; motivo che lo condurrà a una nuova crisi nervosa, che finirà con il tentativo di omicidio del Dr. Lazare.
Ad impedire l’infausto evento è il direttore dell’istituto, il Dr. Peyron (interpretato da Francesco Biscione), un estimatore del pittore olandese. Questi gli propone un patto: cederà alle richieste di Vincent (un arredo più colorato, la possibilità di dipingere, leggere ed ascoltare musica) in cambio di un suo ritratto. Il direttore di Saint-Rémy lo sottoporrà inoltre all’ipnosi; i ricordi di Vincent corrono così all’infanzia e rammenta che da bambino, strattonato dal padre, avverte il forte «odore» del vestito di lui, che, gridando, lo «assorda».
Ecco così svelato il titolo dello spettacolo, che si avvia alla conclusione. Ed è un finale piuttosto emblematico quello di Massini; in effetti, ricompare sulla scena Theo, che recita esattamente le stesse parole enunciate in apertura, quasi che si volesse suggerire che tutti i personaggi in scena siano un’illusione, una creazione della mente di Vincent, proprio come lo era la presenza iniziale del fratello. Cala così sul palco un’intensa luce gialla, colore che più di tutti caratterizza Vincent, i cui girasoli, e i cui astri vorticanti della Notte stellata vivono imperituri nella memoria di tutti. Il cast, sulle note di “Dream on” dei Depeche Mode, si gode infine l’intenso plauso del pubblico del LAC.
Lucrezia Greppi