Parafrasando Raf, cosa resterà di queste 54esime Giornate cinematografiche di Soletta? L’apertura con l’ultra-localistico Tscharniblues II (documentario nostalgic-evocativo su un quartiere bernese)? L’acceso ma un po’ sterile dibattito sorto intorno alle firme raccolte contro la selezione da una trentina di cineasti, intervenuti in difesa di uno degli esclusi che l’aveva presa male (tanto vale fare nome e cognome: Christian Labhart, il film scartato era Passion: Zwischen Revolte und Revolution)? O forse il Premio d’onore supercoraggioso e superdoveroso attribuito a un’addetta ai lavori di quelle ontologicamente nell’ombra, come l’aiuto-regista Giorgia De Coppi? Oppure la mestizia, vista da sud delle Alpi, di una Notte delle Nomination (per il Premio del cinema svizzero del 22 marzo) che ha visto “zero tituli” italofoni tra i nominati? O piuttosto resterà il Premio del pubblico, che invece dà grande soddisfazione al Ticino, alla ventura film di Meride e alla RSI, baciando Gateways to New York (film germanofono, ma interamente prodotto nella Svizzera italiana)?
Partiamo proprio dal documentario di Martin Witz, già autore di opere della memoria su personaggi svizzeri di spessore non troppo noti, come Gottlieb Duttweiler, fondatore della Migros (Dutti der Riese), o come il papà dell’LSD, lo scienziato Albert Hofmann (The Substance). Questa volta Witz mette sotto la lente l’ingegnere Othmar H. Ammann, partito da Zurigo per l’America nel 1904 e diventato nei decenni successivi una celebrità nel campo delle grandi infrastrutture urbane, con progetti come il Ponte di Verrazzano o il Lincoln Tunnel a New York. Per Witz «personaggi eroici come questo sono interessanti come fulcro intorno a cui raccontare una storia più ampia» e il desiderio «al di là di quanto lo conoscano architetti e ingegneri, è di far sì che persone comuni possano riscoprire la figura di un grande svizzero come Ammann». Missione compiuta! Gateways to New York ha tra l’altro la strada spianata di una distribuzione in sala già assicurata, almeno a nord delle Alpi, a partire da aprile.
L’altro vincitore, di quello che resta il premio più ambito in quanto dotato di ben 60mila franchi, ovvero il Prix de Soleure, è pure un documentario (ennesima riprova del primato della documentaristica sulla fiction nel contesto produttivo svizzero), di quel genere “umanistico” che ben corrisponde al mandato esplicito dato alla giuria dalla manifestazione solettese. Segue le vicende dei genitori dell’autrice, Fanny Bräuning, che compiono un avventuroso viaggio in camper, nonostante la madre sia completamente paralizzata da vent’anni. Tra i film interessanti proposti in questa sezione si possono segnalare sicuramente la fiction Pearl, incentrata sulla carriera da body builder di una giovane donna, che in nome del successo ha mollato per strada un marito e un figlioletto.
Curiosamente, uscendo dalle due sezioni competitive, è una tematica molto simile a quella che si riscontra nell’unico film di fiction ticinese che veniva presentato in prima assoluta, Barbara adesso di Alessandra Gavin Müller (altri titoli, come Cronofobia, Un nemico che ti vuole bene, Il mangiatore di pietre, arrivavano a Soletta dopo essere già passati altrove). Anche la Barbara del titolo, come la culturista Pearl, ha abbandonato una figlia in nome di un’incapacità materna molto struggente. Film volenteroso, che non sfugge fino in fondo alla scarsità di risorse produttive a disposizione, ma prova a gettare un sasso nello stagno di un tema complicato, producendo qualche encomiabile cerchio nell’acqua.
Sorpresa molto maggiore la genera invece una regista ticinese “transfuga”, la trentaduenne Kristina Wagenbauer, che da Lugano, dopo l’università, si è trasferita in Quebec per studiare cinema, ha incontrato l’amore e fatto due figli, ma soprattutto a Montreal ha trovato terreno fertile e un humus cinematografico in grado di valorizzare le sue doti, e ora con un budget risicatissimo è riuscita a realizzare Sashinka, storia un po’ autobiografica di un rapporto difficile tra una giovane musicista e la sua problematica madre.
La freschezza di toni, di regia, di direzione d’attori e l’intensità drammaturgica, l’urgenza narrativa e la grazia complessiva che racchiude, sono ciò che si vorrebbe sempre trovare in un film autoriale, che sia svizzero, canadese o venusiano. Colpo di fulmine, secondo forse soltanto al documentario di una delle glorie del cinema nazionale, quel Genesis 2.0 di Christian Frei (ricordate la nomination all’Oscar per War Photographer?) che è un condensato di senso e di pensiero, di meraviglia e di inquietudini, di sgomento per il passato (i mammuth che riaffiorano da ghiacci non più eterni), di incertezze per il presente (la ricerca delle zanne a scopo commerciale, che coinvolge manipoli di disperati nell’estremo nord) e di domande per il futuro (le conquiste molto sinistre delle bio-tecnologie, con clonazioni di pachidermi preistorici incluse). Il film ha compiuto un lungo percorso di festival, ma forse resta il vero titolo da scoprire, il vero emblema di cosa possa essere, e se possibile debba essere, il cinema svizzero.
Marco Zucchi