Un testo duro, difficile, spregiudicato, a tratti spietatamente cinico che non concede nulla al sentimentalismo o al pietismo, quello del Nobel Elfriede Jelinek, La morte e la fanciulla I-V. Drammi di principesse, adattato nella messinscena drammaturgica da Francesca Garolla e diretto registicamente da Alan Alpenfelt per il debutto al LAC di martedì, con replica ieri. Una pedana rossa, che è argomento di scena pronto anche a trasformarsi in un ring (le scenografie e i costumi sono firmati da Annelisa Zaccheria). Come fondale un enorme schermo che, a scacchiera, rimanda all’inizio immagini televisive replicanti, con personaggi e volti d’epoca, per poi lasciare il posto ad un conto alla rovescia (ansiogeno) in tempo reale oppure accelerato che, verso la conclusione dello spettacolo, deve raggiungere lo zero (le realizzazioni video sono di Roberto Mucchiut)
Jackie, la più iconica delle first lady, si fa in quattro, questo il numero delle attrici, di generazioni diverse, Caterina Filograno, Francesca Mazza, Anahì Traversi, Carlotta Viscovo, che le danno la parola, alternando coralità e individualità dell’espressione vocale. Una voce microfonata e sempre strillata, gridata, con il rischio di diventare anche fastidiosa, monotona, di non permettere sfumature, ma la sgradevolezza è un effetto cercato e provocatorio. Altro elemento scenico fondamentale è una lavatrice in cui viene messo il completo rosa, macchiato di sangue e materia cerebrale, che è il filo rosso e il senso del destino di questa donna che, ben consapevole del potere dell’immagine e del ruolo a cui era confinata, ha scelto, secondo la concezione dell’autrice interamente sposata dal regista, di sfruttarlo, manipolarlo ad uso e consumo mediatico, di trasmissione popolare, in pasto all’avida curiosità “gossipara” della massa. Un “sono come voi mi volete”. Torna e ritorna, brutalmente, quello che tutti hanno visto e ricordano meglio, trasmesso infinite volte, iteratamente, sangue e materia cerebrale che, come una Lady Macbeth, ma vittima non colpevole, cerca di lavare, per ritrovare un’innocenza perduta.
Le donne che la moltiplicano utilizzano l’ambivalenza dell’apparire e dell’essere, seduzione e violenza, da una parte, con l’abito firmato, dall’altra, guerriere costruttrici, falegnami con in mano il trapano, per realizzare, inscatolare, inumare, la dimensione volta ad eternizzare la visione della storia. Quindi il personaggio è già inscatolato, pronto all’uso, con il suo coperchio di vetro. Le parole riversano ossessivamente fino alla noia ripetitiva l’idea della femmina preda del suo simulacro: è l’abito che fa la donna, nel suo senso più lato: dall’acconciatura ad ogni accessorio calcolato, prigioniera del decalogo della moda e di ogni gesto e azione in funzione del rotocalco, della foto, della ripresa. I giochi di parole sono assillanti, a volte snervanti, l’idea è chiara ma è riproducibile all’infinito; ciò, che nel suo ruolo deve trasmettere la donna, è il “punto di vita” non il punto di vista, non una persona, ma un modello, lo stereotipo di moglie del presidente, costantemente sotto i riflettori, qui proiettata come un’antonomasia dell’essere femminile. Così il suo capolavoro è il funerale, studiato nei minimi dettagli, personalmente, dal cavallo ai cappottini colorati dei bambini, tali da rimanere impressi a futura memoria in ogni mente, in ogni sguardo di spettatore-telespettatore. E la morte è centrale, non riguarda solo quella per eccellenza del presidente, ma anche di tutti i figli perduti, di tutte le altre morti della dinastia Kennedy. La morte e la rivale, tra le tante amanti, a cui viene dato un buono spazio anche parodico, in una grottesca scena che si svolge in platea, tra le file del pubblico e in una lotta fisica. Jackie è ridotta quindi ad una ricetta disumanizzante che, per sopravvivere, per non essere distrutta dal potere, ne utilizza ogni strategia con perfidia e sottolineatura sarcastica. In questo cliché John è ridotto a fantoccio-cadavere, muto e inerme (Fabrizio Rocchi).
Piuttosto insignificanti risultano gli spazi coreografici, mentre intensi quelli delle musiche dal vivo proposte da Elena Kakaliagou e Ingrid Schmoliner. Potente l’invenzione finale delle 18 bare allineate, tra cui anche quelle destinate alle quattro Jackie…
Uno spettacolo implacabile, applaudito, ma che ha anche diviso il pubblico e che discende comunque da una visione fortemente politicizzata e ideologizzata, a tesi, tale da privare, tranne in pochi momenti, una comunicazione che non sia a livello puramente intellettuale. E forse una durata minore non avrebbe certo comportato uno svantaggio.
Manuela Camponovo