Nella Repubblica Socialista Cecoslovacca – nota come CSSR, nata de facto nel 1948, dopo la Seconda Guerra Mondiale e de jure nel 1960, con la federazione tra Repubblica Socialista Ceca e Repubblica Socialista Slovacca – Piazza San Venceslao è stata essenziale teatro delle proteste del 1968, nate ai primi di gennaio di quell’anno in seguito ad un moto di ribellione studentesco (niente a che vedere con i capricci più o meno legittimi dei figli di papà parigini che in maggio avrebbero devastato la Ville Lumière). Sostituito il fedele burocrate comunista Antonín Novotný ai vertici del Partito Comunista Cecoslovacco (succursale del PCUS nelle terre boeme), il riformista Alexander Dubček – che voleva instaurare un «Socialismo dal volto umano», anche se già allora la Storia aveva attestato la brutalità e l’infattibilità di questo progetto – tentò una più profonda destalinizzazione del Paese: maggiori diritti ai cittadini, più democrazia a tutti i livelli della società, più decentramento della Pubblica Amministrazione.
Il progetto di maggiore libertà – che comunque non eliminava l’enorme peso del PCC dalla vita dei cecoslovacchi – non fu apprezzato a Mosca e dai membri del Patto di Varsavia, allineati come soldatini verso l’URSS, all’epoca Mecca del terrore per il mondo occidentale. Manifestazioni in tutto il paese – anche a Piazza San Venceslao – diedero vita alla famosa Primavera di Praga, repressa nel sangue – una delle brutali specialità del regime sovietico – nell’agosto del ‘68 (quando Gustáv Husák, succeduto a Dubček, aveva già avviato la cosiddetta Normalizzazione da quattro mesi) dai carri armati comunisti e da circa mezzo milione di soldati.
In tutto questo però c’è qualcuno che non ci stette: serviva ben altro per piegare la volontà del singolo, dell’individuo, dell’unico. La carneficina in Ungheria di dodici anni prima (acclamata in gran parte a squarciagola anche da molti membri dei partiti comunisti dei paesi dell’Occidente, Partito Comunista Italiano in testa) avrebbe visto la sua “continuazione” nella capitale cecoslovacca, ma questa volta qualcosa sarebbe stato diverso. L’eccezione – il singolo, l’individuo, l’unico – era lui: Jan Palach. Ai più – e ai più giovani – il nome di questo studente ventunenne non dice nulla o quasi, ma se i cittadini cechi e slovacchi hanno pian piano trovato la forza di alzare la testa dalla loro condizione di dipendenza dall’Unione Sovietica lo devono anche a questo coraggioso ragazzo.
Palach era nato nel 1948 e vent’anni dopo si era iscritto a Storia e Economia Politica all’Università Carlo IV (icona dell’odierna Repubblica Ceca, fondata sette secoli fa). Il 16 gennaio 1969 entrò per sempre nella Storia e il suo nome venne incastonato ufficialmente fra quelli dei grandi difensori della libertà (checché ne dicano, ancora oggi, i detrattori). In Piazza San Venceslao – davanti al Museo Nazionale – Palach decise di darsi fuoco per protesta nei confronti del regime sovietico, dominum a Praga e nell’Europa dell’Est. Le richieste del giovane erano indirizzate verso l’abolizione della censura e le dimissioni dei gerarchi comunisti ossificati nelle istituzioni della Repubblica-fantoccio.
Per uno studente che sognava la libertà, l’occupazione bolscevica non era tollerabile: mentre nella gran parte dei paesi occidentali i boom economici avevano portato e stavano portando i fruttuosi risultati del benessere e della crescita all’insegna della libertà e della democrazia, la prosperità collettiva non si era vista – e non si sarebbe vista per molto tempo – nei Paesi oltre la cortina di ferro – citando Winston Churchill – e appartenenti al Patto di Varsavia (Albania – fino al ‘68 –, Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania dell’Est, Polonia, Romania, Ungheria e Unione Sovietica).
La coppia di benzina e fuoco aveva risparmiato il viso del giovane Palach: a soccorrerlo sul posto, un tramviere che si tolse il cappotto per coprire le ustioni sulla carne bruciata dello studente. In una trasmissione su Radio Praga nel 2003, Jaroslava Moserová – ambasciatrice, politica e senatrice ceca, nonché prima dottoressa che curò Palach – ha ricordato gli eventi di quel gelido inverno di mezzo secolo fa: «Ero una di quelle che prestò il primo aiuto, curando le zone bruciate. Naturalmente non dimenticherò mai quell’esperienza e neppure i giorni che seguirono. Eravamo molto scontenti: lui si era sacrificato per la nazione […] Una delle infermiere che era con lui disse che continuava a ripetere: “Per favore, dì a tutti perché l’ho fatto. Per favore, dillo a tutti.” […] Credo che questo suo gesto abbia avuto un effetto enorme sui partiti comunisti all’estero e nei paesi democratici. E quello che più rimpiango solo tutte le persone che sembrano dimenticare l’atmosfera di allora e perché lui ha fatto quel gesto.»
Difatti è in parte così: sui portachiavi, sulle magliette, sui portafogli e nelle menti delle generazioni cresciute negli anni Ottanta non è finito quel giovane studente che letteralmente ha sacrificato la sua pelle e la sua vita per la libertà, ma un assassino di nome Ernesto Che Guevara (paradossalmente riconosciuto oggi come icona della destra estrema, giusto per far capire a che punto è arrivato il letale impasto tra ignoranza e assenza di ideologia). E d’altra parte è imperativo ricordare che neppure il cosiddetto “Occidente” non fece e non ha mai fatto molto per tenere viva ed alta la figura di Palach: l’imperativo numero uno – visto anche il sanguinoso e aperto fronte del Vietnam – era cercare di tenere lontana e arginare la piaga sovietica.
Jan Palach è morto il 19 gennaio 1969, tre giorni dopo il suo rogo, cinquant’anni fa, ma di anni se ne sarebbero dovuti aspettare prima del crollo del regime che lui e pochi altri dissidenti contestavano dall’interno (a discapito di quelli che quella medesima dittatura l’acclamavano dall’esterno). Alcuni colleghi-studenti del martire di Praga seguirono il suo esempio (Jan Zajíc, in febbraio e Evžen Plocek, in aprile, ispirati – come Palach – dai monaci buddisti di Saigon), ma la Rivoluzione di Velluto non era ancora matura. Nella borsa a tracolla che era deposta a qualche metro di distanza dalla dimostrazione di Palach, furono rivenute diverse lettere, una delle quali concludeva con l’autodefinizione che il giovane studente aveva dato a se stesso: «torcia umana numero uno».
Seicentomila persone andarono al suo funerale, nonostante gli aspri tentativi di denigrazione e repressione di Mosca e dei suoi servizi segreti. A cinquant’anni di distanza – nonostante sia dimenticato e rimpiazzato da finti miti, come ricordato – è asseribile che Jan Palach la sua battaglia l’abbia vinta e la Storia gli abbia dato ragione. Trent’anni dopo il suo gesto milioni di cittadini avrebbero ritrovato la libertà troppo a lungo negata dietro al Socialismo (altro che volto umano). No, Jan Palach non era solo una torcia: era la fiamma della libertà.
Amedeo Gasparini