Con la sua penna affilata come un rasoio, Karl Kraus ci ha lasciato molte verità graffianti e scomode che hanno attraversato il secolo fino a noi. Una delle più significative, perfettamente calzante rispetto al contesto odierno, è: «Il segreto dell’agitatore politico è di rendersi stupido quanto i suoi ascoltatori, in modo che questi credano di essere intelligenti come lui». Un aforisma breve, ma spietato. Che fotografa il teatrino della politica quando questa abdica al suo compito più alto per trasformarsi in mercato delle illusioni. Il talento del demagogo non sta tanto nell’elevare il pubblico al proprio livello, quanto nel precipitare nel baratro dell’ovvio strumentalizzato, trascinando con sé la platea in una specie di mutuo abbrutimento sociale consensuale. È un fenomeno che si ripete con desolante regolarità, specialmente negli ultimi vent’anni, in cui il populismo è asceso a metodo prediletto della conduzione dell’offerta politica in molti contesti occidentali.
Il politico di turno, magari con tanto di pedigree accademico, si presenta sul palco e come per magia si trasforma in una macchina sforna-banalità – ancor prima che di contenuti a sfondo razzista, xenofobo o omofobo. Via, dunque, i ragionamenti complessi. Tutto si riduce a un semplicistico “noi” contro “loro”, “bene” contro “male”, “amici” contro “nemici”, “ricchi” contro “poveri”. Ma il vero capolavoro – e qui Kraus aveva visto lungo – sta nel far sentire il pubblico intelligente. È una specie di gioco delle tre carte. L’oratore si abbassa al livello più elementare e il pubblico, riconoscendo quelle ovvietà come verità, si convince di aver capito tutto. «Eh sì, dice proprio quello che penso io!», dice soddisfatto chi ascolta il demagogo di turno, senza realizzare che è esattamente questo il trucco. L’agitatore politico non si distingue per la sua intelligenza, ma per la sua abilità nell’appiattirsi al livello dei riflessi istintivi.
Egli non eleva, non educa, non guida. Scende, si mescola alla folla, ne parla il linguaggio, ne amplifica paure e rancori. E lo fa con un obiettivo preciso: non per conquistarla, ma per farsi riconoscere come uno di loro. È un inganno studiato, perché, mentre finge di mettersi sullo stesso piano dei suoi ascoltatori, li trascina dove vuole lui. Ogni leader populista cova un istinto di agitatore politico. Non elabora idee, le riduce. Non spiega la complessità del mondo e i suoi contesti. Semplifica e mente. E dunque, l’immigrazione non è un fenomeno storico, sociale ed economico: è “invasione”. La crisi climatica non è una sfida epocale: è un “complotto”. La disoccupazione non si affronta con riforme strutturali, ma con un generico “prima i nostri”. Ad ogni soluzione corrisponde una promessa impossibile. Il meccanismo è infallibile. L’agitatore sa che la folla non cerca risposte, ma colpevoli.
Per governare la paura e la rabbia, l’intelligenza deve farsi da parte. Ciò che conta è la capacità di parlare alla pancia, non alla testa. È la politica delle emozioni, dove chi grida più forte vince. È il miracolo della demagogia: il leader non si presenta come superiore, ma come uguale. E così facendo conquista il consenso senza fatica. Quindi, mentre i problemi reali richiederebbero analisi approfondite e soluzioni articolate, ci ritroviamo con una parte della classe politica che gareggia a chi la spara più grossa. Se oggi i sobillatori – ora di destra, ora di sinistra – trionfano, è perché c’è un pubblico pronto ad acclamarli. E perché il linguaggio della responsabilità, del sacrificio, della complessità, è diventato incomprensibile o, peggio, insopportabile. L’unica consolazione è che Kraus ci aveva avvertito più di un secolo fa. Peccato che molti allora fossero occupati ad applaudire qualche demagogo di turno.
Amedeo Gasparini
Con la sua penna affilata come un rasoio, Karl Kraus ci ha lasciato molte verità graffianti e scomode che hanno attraversato il secolo fino a noi. Una delle più significative, perfettamente calzante rispetto al contesto odierno, è: «Il segreto dell’agitatore politico è di rendersi stupido quanto i suoi ascoltatori, in modo che questi credano di essere intelligenti come lui». Un aforisma breve, ma spietato. Che fotografa il teatrino della politica quando questa abdica al suo compito più alto per trasformarsi in mercato delle illusioni. Il talento del demagogo non sta tanto nell’elevare il pubblico al proprio livello, quanto nel precipitare nel baratro dell’ovvio strumentalizzato, trascinando con sé la platea in una specie di mutuo abbrutimento sociale consensuale. È un fenomeno che si ripete con desolante regolarità, specialmente negli ultimi vent’anni, in cui il populismo è asceso a metodo prediletto della conduzione dell’offerta politica in molti contesti occidentali.
Il politico di turno, magari con tanto di pedigree accademico, si presenta sul palco e come per magia si trasforma in una macchina sforna-banalità – ancor prima che di contenuti a sfondo razzista, xenofobo o omofobo. Via, dunque, i ragionamenti complessi. Tutto si riduce a un semplicistico “noi” contro “loro”, “bene” contro “male”, “amici” contro “nemici”, “ricchi” contro “poveri”. Ma il vero capolavoro – e qui Kraus aveva visto lungo – sta nel far sentire il pubblico intelligente. È una specie di gioco delle tre carte. L’oratore si abbassa al livello più elementare e il pubblico, riconoscendo quelle ovvietà come verità, si convince di aver capito tutto. «Eh sì, dice proprio quello che penso io!», dice soddisfatto chi ascolta il demagogo di turno, senza realizzare che è esattamente questo il trucco. L’agitatore politico non si distingue per la sua intelligenza, ma per la sua abilità nell’appiattirsi al livello dei riflessi istintivi.
Egli non eleva, non educa, non guida. Scende, si mescola alla folla, ne parla il linguaggio, ne amplifica paure e rancori. E lo fa con un obiettivo preciso: non per conquistarla, ma per farsi riconoscere come uno di loro. È un inganno studiato, perché, mentre finge di mettersi sullo stesso piano dei suoi ascoltatori, li trascina dove vuole lui. Ogni leader populista cova un istinto di agitatore politico. Non elabora idee, le riduce. Non spiega la complessità del mondo e i suoi contesti. Semplifica e mente. E dunque, l’immigrazione non è un fenomeno storico, sociale ed economico: è “invasione”. La crisi climatica non è una sfida epocale: è un “complotto”. La disoccupazione non si affronta con riforme strutturali, ma con un generico “prima i nostri”. Ad ogni soluzione corrisponde una promessa impossibile. Il meccanismo è infallibile. L’agitatore sa che la folla non cerca risposte, ma colpevoli.
Per governare la paura e la rabbia, l’intelligenza deve farsi da parte. Ciò che conta è la capacità di parlare alla pancia, non alla testa. È la politica delle emozioni, dove chi grida più forte vince. È il miracolo della demagogia: il leader non si presenta come superiore, ma come uguale. E così facendo conquista il consenso senza fatica. Quindi, mentre i problemi reali richiederebbero analisi approfondite e soluzioni articolate, ci ritroviamo con una parte della classe politica che gareggia a chi la spara più grossa. Se oggi i sobillatori – ora di destra, ora di sinistra – trionfano, è perché c’è un pubblico pronto ad acclamarli. E perché il linguaggio della responsabilità, del sacrificio, della complessità, è diventato incomprensibile o, peggio, insopportabile. L’unica consolazione è che Kraus ci aveva avvertito più di un secolo fa. Peccato che molti allora fossero occupati ad applaudire qualche demagogo di turno.
Amedeo Gasparini