Da oltre un mese ormai la borsa sta agganciata allo schienale della sedia in camera mia, inutilizzata.
Non si esce più. Al massimo per il quotidiano giretto intorno a casa, quando si porta solo il cellulare infilato nella tasca della giacca.
La borsa penzola semivuota. Già, perché il borsellino da settimane sta appoggiato sul buffet all’entrata. L’ultima volta è servito a pagare il volonteroso giovane volontario che ci ha portato la spesa a casa. Soldi e carte di credito, stando sempre a casa, non servono più.
La borsa, in tempi normali, contiene la parte di casa che ci portiamo dietro quando usciamo. Un bagaglio minimo, fin troppo celebrato nella forma e nella materia, cambiata a seconda della capienza, dell’abbigliamento, del colore, dell’umore e delle circostanze. Io non la cambiavo più da un bel po’. La borsa è una costola della casa. Si rivela importantissima quando la perdi. Tant’è che un sogno ricorrente è proprio quello. «Avevo perso la borsa con dentro il cellulare, i soldi (pochi per fortuna), le carte di credito (tante) e tutti i documenti. Ero angosciatissima, nel sogno, soprattutto per il cellulare e per i documenti. Me ne stavo lì seduta sul muretto in lacrime e sconsolata immaginavo il traffico per far rifare tutto. Adesso poi che tanti uffici sono chiusi – nel sogno mi ero ricordata anche del virus – chissà se poi te la rifanno la patente o la carta d’identità?».
Adesso perdere i documenti sarebbe davvero un bel guaio, come perdere pezzi di sé. Controllo il borsellino. Tiro fuori tutto. Carte di credito e tessere: le tengo in mano come un mazzo di carte da gioco. Ma non devo nasconderle a nessuno, non si gioca nessuna partita, posso appoggiarle sul buffet: carte di credito e documenti di qua, tessere di là. Oh, ma quante tessere inutili: quella del gruppo di lettura che tanto non ci sono più andata, quella del cineclub che ti dà la quinta proiezione gratuita (ma timbrate son solo due). Il borsellino contiene tante (troppe!) tessere di fedeltà per le tante (troppe?) iniziative cultural-spiritual-social-sportive. Quelle che proprio non ho mai usato le lego con un elastico e le infilo nel cassetto del buffet. Le altre le rimetto nel portafogli (prima l’ho chiamato borsellino?), che è ancora gonfio ma meno di prima.
Poi lo sguardo torna sulla borsa appesa in camera, appesa e sconsolata. Tolti il cellulare e il portafogli, dentro cosa rimane?
La prendo, mi siedo, l’appoggio sulle ginocchia. Quando ancora uscivo, mi dava sicurezza. La tenevo sempre vicina, come Charlie Brown la sua coperta. Se la mettevo giù un attimo e poi la cercavo con lo sguardo, era confortante scovarla. La borsa è il fagotto del viandante, il bagaglio del viaggiatore, lo zaino dell’escursionista: senza ci si sente – e a volte lo si è davvero – spacciati. I gesti nell’aprirla e nel chiuderla con il tempo, se si usa sempre la stessa, diventano automatici, quasi involontari.
L’apro. Tiro fuori tutto e sulla scrivania appoggio: agendina cartacea con penna, legate da un elastico per capelli; logora trousse con vecchi cosmetici; occhiali da sole, occhiali da lettura; scatoletta con le pasticche di liquirizia; calzino da bebè (della nipotina) contenente gli auricolari e una borsa di nylon arrotolata su se stessa, schiacciata in un suo angolo e strangolata da un cordino: grande come un fragolone, aperta è in grado di portare la spesa di uno o più giorni, diventa molto più capiente della borsa che la contiene.
Come, in questo periodo, l’ansia da virus: invece di essere una parte seria e importante della nostra consapevolezza, l’ansia si gonfia e da contenuto diventa contenitore, pieno… di sé.
Elena Spoerl