Nives Meroi, sempre in cordata con il marito Romano Benet, senza ossigeno e senza sherpa: è la prima coppia ad aver scalato tutti i 14 “giganti” della catena himalayana. Una certa idea dell’alpinismo, rispettoso della natura innanzi tutto. I grandi valori che la montagna trasmette, dall’essenzialità alla bellezza del Creato.
Chissà se chi ha scelto il nome per lei aveva anche qualche capacità di leggere nel futuro e di prevedere un destino. Nella vita di Tiziano Terzani ha avuto un rilievo significativo ciò che un indovino gli disse, tanto che il grande inviato di guerra e scrittore non prese più l’aereo per il tempo che gli era stato prefigurato a rischio dal veggente. Quel “Nives” pensato da mamma e papà per la neonata di Bonate Sotto, il 17 settembre 1961, si è rivelato l’anticipazione di una carriera – di scalatrice di tutta la filiera degli ottomila metri – ma anche molto appropriato all’identità. Nives Meroi, infatti, richiama l’immagine di candore delle nevi, che tanta parte hanno avuto nella sua vita, di bianco lucente, di passione per un Creato pulito, di grande bellezza, di tutte le molte doti che orientano i suoi giorni, e non solo quando si carica in spalla lo zaino: è il suo stile di vita. Nives Meroi con il marito Romano Benet è la prima coppia al mondo ad essere arrivata sulle cime dei 14 “giganti” della catena himalayana, che sono il tetto del pianeta. Mettendo assieme tutte le sue ascensioni, Nives s’è arrampicata per qualcosa come 160 mila metri, una cifra da vertigine. Non è però una donna che ha il culto del protagonismo come succede spesso tra i personaggi famosi. Questa primatista mondiale in coppia con il marito è una che non esita a mettersi in tuta, cominciando a spalare neve – badile nelle mani – anche per i vicini di casa. È un particolare che ci dà la misura della sua dimensione umana. Nives è una che ha scalato tutti i giganti himalayani sottovoce e a denti stretti, come s’è raccontata a tutto tondo nel suo stile di spontaneità sulla rivista “Réservé”. Per lei e il marito non ci sono sciami di giornalisti e di fotografi che si accalchino ad ogni rientro da un’impresa dopo il corpo a corpo con i 14 giganti “over ottomila” raggiunti come si dice nel gergo “a spasimo di polmoni e a narici impietrite”. Non osiamo pensare alle temperature siderali che avvolgono a quelle sommità. Noi ci lamentiamo se il termometro nell’appartamento non staziona sui 21 gradi!
“Quel territorio nascosto da scoprire e raccontare”
Nives, che effetto le fa essere collocata tra le alpiniste più brave del mondo ed essere celebrata ovunque, giornali, riviste, libri, internet…?
A me non interessano molto i record, anche perché sono fatti per essere superati da noi stessi o da qualcun altro. Ci basta la felicità di quello che abbiamo fatto e non ci stanchiamo di coltivare il sogno della prossima meta, vicina o lontana, senza però ansie di prestazione. Ogni domani è sempre un altro giorno. Sì, in questo mi sento molto Rossella O’Hara di Via col vento.
Che cos’è per lei la montagna?
Un territorio nascosto, dell’anima, che gli alpinisti scoprono e devono raccontare, camminando leggeri per rispettarlo. Ho cominciato a scarpinare che avevo 15 anni nel raggio d’azione che allora ci consentiva l’autostop o il motorino, sulle montagne del Friuli che mi hanno insegnato la responsabilità.
Sono molte le fatiche che devono affrontare gli alpinisti. Parafrasando Luca Carboni, ci vuole un fisico bestiale per sopportare passaggi dal sole feroce al ghiaccio rabbrividente…
Quando si raggiunge un traguardo, la gioia fa dimenticare lo sforzo. Talora la fatica dell’ascesa si fa perfino brutale. Lì mi domando: ma non si starebbe meglio sul divano di casa? Confesso di aver trovato però l’equilibrio per economizzare le energie e gli sforzi. Un aspetto che mi pesa molto ultimamente sono le notti in alta quota. Cominciano già al pomeriggio e sono di una lunghezza interminabile; te ne devi star lì, chiusa in tenda, facendo anche economia di ossigeno. Lassù in alto non è che si dorma: si attende solo che arrivi il giorno per poter ripartire. L’umidità, il freddo, il poco ossigeno che ci si ruba a vicenda, si fanno sentire. Sarà l’età…
Come governare il rischio e come vivere una rinuncia che lei non esita a chiamare “coraggio di fallire”?
Noi siamo esperti nell’«arte della fuga senza vergogna». Ho imparato che spesso bisogna lasciare che sia il corpo a decidere quando è il momento di mollare. Dobbiamo rimuovere tutti i pensieri che in quel momento sono superflui o potrebbero distrarre dal vero, cruciale obiettivo: che è quello dell’integrità della cordata per tornare giù sani e salvi.
“Molto si è trasformato in turismo d’alta quota”
Dei 14 giganti, quale vi è rimasto più addosso e perché?
C’è il nostro “K in 2”, altra montagna cui siamo legati; poi c’è il Kangchendzonga, perché è da lì che siamo ripartiti dopo la malattia (“aplasia midollare severa”) di Romano e il fermo ai box per due anni, dal 2009 al 2011. Quella cima l’abbiamo raggiunta in… tre, perché ci teneva ideale compagnia il fratello genetico di Romano (l’ignoto donatore di midollo, NdA). Ogni montagna ha la sua storia e tutte, a vario titolo, hanno lasciato una traccia molto profonda in noi.
La montagna ha dato moltissimo a lei e a Romano. C’è anche qualcosa che vi ha tolto?
No, perché non ce l’ha ordinato il dottore di farlo, è sempre stata una nostra scelta. Abbiamo perso molti amici, purtroppo in montagna, però non è stata la montagna a portarceli via: a volte sono stati degli errori, a volte la fatalità, un’imprudenza, il trovarsi nel punto sbagliato nel momento sbagliato… Sicuramente la montagna non è assassina. Una cosa che ho scoperto negli anni è la bellezza che si cerca e si prova nell’andare in montagna.
Lei ha definito l’Everest “un parco giochi per gente annoiata”. Montagna e modernità in che rapporto stanno? In questi lunghi anni del vostro alpinismo, che cosa trovate di molto cambiato?
La modernità ha portato un grande miglioramento nelle conoscenze dei luoghi, dei materiali, della fisiologia d’alta quota. L’alpinismo è sempre stato figlio del suo tempo: nel presente in larga misura – per fortuna non tutto – si è purtroppo trasformato in un turismo d’alta quota. L’estate scorsa siamo stati con amici sul Manaslu, 8163 m: l’impatto è stato devastante. Al campo base ci saranno state 800 persone, più di 400 alpinisti stavano aspettando di salire, elicotteri che partivano altri che arrivavano, campi base illuminati di notte, recintati per ciascun gruppo, musica da discoteca. Non parliamo dei cumuli di immondizia lungo la via di salita… L’atteggiamento è quello del “pago dunque posso fare ciò che voglio”.
Una fetta di formaggio meglio della barretta
C’è ancora qualcosa che resta da scoprire della montagna, dopo tutte le esplorazioni fatte?
I turisti vanno in genere dove non si corrono rischi e non si fa troppa fatica, tutti sulle stesse vie. Spesso anche i professionisti non tentano vie nuove: lo fanno per avere la sicurezza di portare a casa il risultato. Anche nell’alpinismo – sempre più praticato e venduto come un prodotto – vince l’imperativo di “aggiungere” tutto quello che la tecnologia mette a disposizione per ridurre percorsi e sacrifici. La montagna è scuola d’altro, ad esempio di essenzialità, anche di pensiero.
Lei e Romano che cosa vi portate in spalla nelle spedizioni verso un ottomila?
Fino al campo base c’è un certo equipaggiamento poi, da qui in su, si porta quello che serve. L’importante sta proprio qui: saper riconoscere il necessario, escludendo il di più. Nello zaino mettiamo l’attrezzatura per la scalata, per il campo, che spostiamo con noi nella salita perché ci muoviamo come le tartarughe con la casa al seguito. Naturalmente portiamo i viveri. Non appoggiandoci agli sherpa, cerchiamo di stare leggeri, risparmiando energie, per quanto possibile.
Alpinismo e alimentazione: chi pensa alle provviste per una spedizione e che cosa in genere portate con voi?
Al campo base abbiamo il cuoco che ci prepara colazione, pranzo e cena e quindi siamo serviti e riveriti come in un ristorante. Le agenzie organizzano al dettaglio, anche lo staff del campo base con ampia scelta di menu, secondo la provenienza di ciascuno. Noi stiamo sulla pastasciutta e ci pare d’essere nel Friuli. Adesso, peraltro, anche nei supermercati di Katmandu si trova tutto: dalla pasta Barilla al caffè Illy. Talvolta prendiamo specialità del posto, come riso e lenticchie. Dal campo base in poi, è quasi più importante bere che mangiare. Bere serve per mantenere fluido il sangue e perciò ci dobbiamo sforzare di farlo. Non portiamo né barrette né buste di cibo liofilizzato, ma un trancio di prosciutto crudo, parmigiano in abbondanza, del torrone… Una volta ho partecipato ad un convegno di medicina di montagna intitolato “Barretta o pancetta?”. Dopo una mattinata di discussioni, la conclusione fu che vanno bene entrambe. Noi optiamo per la pancetta.
Giuseppe Zois