Daniel Manivel è riuscito a rappresentare, con il suo film Les enfants d’Isadora la dignità e delle madri che perdono i loro figli. Lo ha fatto con la danza, o meglio mettendo in scena l’impatto emotivo che la danza assume nell’espressione artistica, quando essa può contribuire ad elaborare e ad esternare il dolore. Quando si raffigura il dolore per la morte di un figlio con la delicatezza e il rispetto che abbiamo riscontrato in questo film è difficile restare indifferenti. Il tentativo di incarnare il dramma di Isadora Duncan, attraverso quattro donne e tre storie, ha colpito nel segno. Il regista parte dalla creazione della coreografia dell’assolo Mother, che la famosa ballerina e coreografa Isadora Duncan ha lasciato ai posteri un secolo fa, dopo aver perso i suoi due figli. La lettura di una voce fuori campo di alcune pagine del libro di Isadora Duncan Ma vie scandisce poeticamente il tempo, con dei lunghissimi silenzi, dentro scene in cui i movimenti sembrano appesantiti dalla tragedia della perdita, con lunghe e lente inquadrature sulla mano, sulle dita dei piedi, sui gesti di danza che l’attrice Agathe Bonitzer sperimenta, riflessa davanti allo specchio. I segni del corpo, in questa danza, che sembra a tratti un rituale di liberazione, si intensificano, contenendo quel preciso dolore inesauribile che non trova consolazione se non attraverso la corporeità. La lenta preparazione al movimento potrebbe raffigurare l’elaborazione del lutto, che inesorabile crea quel cratere di sofferenza di una madre che piange un figlio morto. Ma come si può rappresentare il dolore di una madre? Sembrerebbe impossibile eppure Marivel traspone attraverso il cinema, quel dolore senza l’urlo spettacolare, riproducendolo invece attraverso i silenzi, gli sguardi, i movimenti, l’assenza di musica oppure la musica assordante, che richiama il crescendo della disperazione. In questo film la danza è l’attrice principale perché attraverso il suo incedere riesce ad esprimere il mutismo dello strazio che è impercettibile ma devastante. Cullando i bambini e accarezzandoli un’ultima volta il regista riproduce l’immagine di una madre che porta in braccio il figlio morto. La ballerina con la sindrome di Down (Manon Carpentier) e la sua coreografa Marika Rizzi interiorizzano la danza e i suoi significati, preparando la rappresentazione, e ridefinendo quei gesti d’amore che una madre riserva ai propri figli. Ad assistere allo spettacolo di danza della ballerina Down c’è Elsa Wolliaston (già protagonista del cortometraggio “La Dame au chien” di Damien Manivel). La donna piange perché riconosce in questa danza il suo dramma, raccontato e arricchito nei gesti perché ogni gesto racconta un momento della sua storia. La danza, diceva la Duncan, non appartiene a nessuno ma oguno vi può trovare i propri gesti. E in questo film la delicatezza dei gesti e il modo con cui il regista si pone, di fronte alla perdita, sono un tributo alla bellezza malgrado la morte di un figlio sia una realtà aberrante e contro natura.
Nicoletta Barazzoni