Fine precoce di D.S., ultimo romanzo di Giuseppe Curonici
Fine precoce di D.S. è un’infuocata e nobile invettiva che si iscrive nel solco dell’Homme révolté di Camus, il più lucido fustigatore dell’annientamento dell’uomo da parte dell’uomo nel Ventesimo secolo. Da Camus è tratto l’esergo del romanzo: «Il bacillo della peste non scompare mai, e forse poteva venire il giorno in cui per l’infelicità e l’ammaestramento degli uomini, la peste avrebbe risvegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice».
Dire che l’ultimo lavoro di Curonici è un romanzo è filologicamente corretto: narra le tragiche vicende di un giovane economista residente a Como, impiegato in una società finanziaria svizzera e coinvolto suo malgrado in un giro criminale internazionale più grande di lui, che ne segnerà la condanna a morte. Ma la storia «più grande di lui» non è soltanto – o tanto – questa: è anche LA Storia, e in modo particolare quella che, da Abramo in poi, da quattromila anni si accanisce contro il popolo ebraico privato di terra, di radici, e destinato – vittima sacrificale – alla persecuzione e all’annientamento. Annientamento che segna come una ferita indelebile e aperta il Ventesimo secolo e ci tocca dolorosamente fino ad oggi («La peste non scompare mai, ritorna». «La vastità del tempo non separa ma unisce, ogni volta le cose sono già iniziate» – sottolinea proustianamente l’incipit del romanzo -).
Questa storia a noi vicina nel tempo ma anche nello spazio (si svolge nel presente fra Como e Chiasso a cavallo della frontiera e dei nostri laghi e a Zurigo) è tuttavia marchiata col segno di Sichem – città dove approdò Abramo e dove il popolo di Israele rinnovò l’Alleanza con Dio prima di entrare nella Terra promessa -. D.S., la sigla che figura nel titolo del romanzo di Curonici, sta infatti per Daniel Sichem, discendente di una famiglia ucraina deportata dopo l’invasione tedesca ad Auschwitz Birkenau e cresciuto dalla nonna Rachele – liberata dal lager il 27 gennaio 1945 dall’Armata rossa – e dallo zio Izaak. La ferita di Daniele (nomen omen) è aperta; antica e recente nel contempo. Lo era già da scolaro, quando l’amico Camenir lo vide un giorno balzare improvvisamente dalla sedia e rotolarsi per terra urlando «Meschùgge, Meschùgge» – che nella lingua Yiddisch vuol dire pazzo – e agitando le braccia al grido di «Sono il clown, Sono il clown». Nel «clown era nascosta una voce che chiedeva aiuto» e ai compagni che lo deridevano Daniele aveva replicato: «In questa infame vita c’è bisogno di un po’ di sfogo!».
«La madre di Daniel era morta due giorni dopo averlo partorito. Quando ancora lo aspettava era angosciata dall’idea che l’avrebbe messo in un mondo come questo… Lo zio Yzaak, che l’aveva cresciuto, non si era sposato perché avere moglie e figli lo sgomentava: la sua famiglia aveva vissuto catastrofi spaventose e non sopportava che i suoi cari fossero esposti a tanto». E sotto la manica di nonna Rachele, quando serviva la zuppa, si intravedeva un numero infame… «Da qualche parte nel tempo era accaduta una malvagità collettiva, di una tale vastità che era impossibile a un ragazzo capacitarsene. Sei milioni di persone sono state assassinate». – «Come mai ti interessi a quello» – gli disse una volta un compagno durante la lezione di storia – «Ciò che conta è passare gli esami e ormai è passato tanto tempo e non c’è più nessuno. Un momento, non c’è più nessuno – aveva risposto Daniel -: I discendenti, le impronte, le cose che continuano fino ad oggi e l’effetto che un atto tanto infame ha lasciato nella vita. La paura. Non poter essere sicuro di niente. Se una cosa è capitata vuol dire che può tornare. Guardiamo ciò che succede oggi, contro gli ebrei e contro i cristiani (A Parigi hanno sgozzato un vecchio prete che diceva messa; terroristi entrano in un negozio israelita e sparano col mitra ai clienti… ). Nei discendenti delle vittime è aperta una voragine. È l’insicurezza dell’essere. L’insicurezza collettiva di un popolo, di più popoli. L’insicurezza di essere nel mondo».
Il libro di Curonici pone una questione attualissima. Che riguarda il popolo ebraico ma che è anche sintomo del male diffuso e profondo di un’epoca. Finora si è potuto dare voce ai testimoni sopravvissuti alla barbarie. Ma che la ferita, le conseguenze devastanti dell’eccidio infame, continuino nei discendenti è una tara indelebile che segna una vittoria degli aguzzini che si perpetua nel tempo. Paul Celan e Primo Levi, ammonisce il romanzo, non hanno retto al peso di un’infamia che è riuscita ad umiliare a tal punto le vittime da farle sentire colpevoli. «Colpevoli, sono le vittime».
Nella poesia Fuga della morte Paul Celan scrive: «Nero latte nell’alba noi lo beviamo, lo beviamo la sera e la notte scaviamo una tomba nell’aria. Voi salirete come fumo nell’aria così avrete una tomba nelle nubi». Paul Celan e Primo Levi sono scampati alla Shoa ma non sono sopravvissuti alla ferita, al ricordo dell’umiliazione della Shoa: il primo venne trovato morto annegato nella Senna: il secondo ai piedi di una scala. Di cosa sono morti?
La traiettoria di Daniel Sichem è drammaticamente la medesima. Come è morto? Il lettore può immaginare che sia stato assassinato dalla mafia internazionale convinta che lui e la sua assistente Hannah Neumann – ebrea come Daniel e quindi tendenzialmente incline al complotto, e quindi depositaria dei peggiori vizi imputati agli ebrei da sempre dall’antisemitismo – fossero agenti inviati dalla loro società finanziaria per spiarli e poi denunciarli. Daniel non viene forse trovato dalla polizia zurighese in stato confusionale, col volto tumefatto? E non gli vengono forse sottratti documenti e computer, dove aveva registrate le informazioni sui nuovi clienti? Troppi e pesanti indizi lo inducono a sentirsi pedinato, seguito, minacciato. La notte sente i passi dei suoi persecutori, che cercano di forzare le maniglie per entrare nella sua stanza. Minacce crescenti che lo inducono a cercar rifugio prima da amici e finalmente in una clinica. Poiché lì, finalmente, potrà sentirsi sicuro e protetto, uscire dalle paure. Una clinica in cui entra da ospite e dove diventerà man mano paziente in preda alla depressione e ad un complesso di persecuzione sempre più acuto. E da cui, come il nevrotico Zeno Cosini di Svevo o il febbricitante Hans Castorp di Thomas Mann, sarà travolto.
Daniel Sichem viene rinvenuto morto – «per un collasso», si sente dire sbrigativamente l’amico Cademir – un 22 giugno. Lo zio Yzaak spiegherà all’amico sconvolto Cademir cosa significava quella data fatale: proprio il 22 giugno del 1941 Hitler invase la Russia e poco dopo il nonno perì nel massacro di Kiev e la famiglia Sichem venne deportata: «Attaccarono all’improvviso proprio al sorgere del sole, all’inizio del giorno». «Che fu l’inizio della notte» – gli disse Yzaak, riecheggiando il titolo delle memorie di Elie Wiesel -.
Azzardo a questo punto una lettura manzoniana del romanzo. Alcuni ammiccamenti topografico-letterari dell’autore ma soprattutto il tema insistente della peste e del destino individuale e collettivo di fronte al male inducono a farlo. Abbiamo più volte rilevato la sottolineatura che Curonici fa della parola infamia, infamante. Sappiamo quanto il Romanzo del Manzoni faccia un tutt’uno col saggio che si apre immediatamente dopo, quasi fosse – e così è davvero – una necessaria e complementare chiave di lettura delle vicende precedenti. Questo saggio manzoniano è La colonna infame: implacabile denuncia dell’ingiustizia dell’uomo contro l’uomo a partire dal feroce supplizio inferto agli untori, innocenti capri espiatori di un’età di soprusi. Il dilemma del Manzoni della Colonna infame ben s’attaglia alle vicende evocate in questo libro e all’appendice che di questo è parte integrante: «Se in un complesso di fatti atroci dell’uomo contro l’uomo – scrive Manzoni – crediam di vedere un effetto dei tempi e delle circostanze, proviamo, insieme con l’orrore e con la compassion medesima, uno scoraggiamento, una specie di disperazione. Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio e come legata in un sogno perverso e affannoso da cui non ha mezzo di riscotersi… E cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto ad esitare tra due bestemmie che son due deliri: negar la Provvidenza o accusarla».
Dicevamo dell’Appendice con cui si conclude il libro di Curonici. Essa altro non è che la riproduzione della Lettera nell’al di là da un ebreo morto a un nazista morto, ritrovata in una busta sulla scrivania di Daniel Sichem dopo la sua morte. La busta portava l’intestazione «Quaderni neri» ed era indirizzata a M.H., ovvero il filosofo Martin Heidegger. Le accuse di Daniel Sichem al filosofo dopo il ritrovamento delle sue Annotazioni sono implacabili e infuocate: «Professor Heidegger, il suo pensiero contiene il concetto di assassinio. Assassinio di massa. Lei dice che il ruolo storico dell’ebraismo è lo sradicamento, sradicare dall’essere tutto ciò che è. Dichiarazione antisemita totalitaria. Gli ebrei sarebbero estranei e contrari all’Essere. Sul Führer lei afferma che è una fortuna che abbia risvegliato una nuova realtà che mette il nostro pensiero sulla strada giusta e gli conferisce forza d’urto. Questa sua dichiarazione costituisce si o no un elogio della dittatura e del nazismo?» E aggiunge: «Lei accusa gli ebrei di non comprendere il senso dell’Essere, senonché lei non si è accorto che se c’è un popolo che ha proposto l’Essere, questo è il popolo ebreo…. Infatti Mosé domanda al Signore: E se quelli mi chiedono chi sei, qual è il tuo nome, cosa dico? La Voce rispose: Io sono. Questo è il mio nome: Io sono. L’Essere discute a tu per tu con un uomo. Il pensiero ebraico ha introdotto nel mondo l’Essere e il senso dell’Essere. Professore lei non si è accorto che l’Essere che lei cercava l’attendeva in casa degli ebrei».
Questa invettiva infuocata merita di essere conclusa con una citazione dell’Homme Révolté di Camus (Remarque sur la révolte, 1945). «La rivolta non nasce solo e necessariamente presso l’oppresso: può sorgere anche alla vista dell’oppressione. In questo caso c’è l’identificazione all’altro individuo. C’è identificazione di destini e una presa di posizione. L’individuo non è – egli soltanto – il valore che vuole difendere. Ci vogliono tutti gli uomini per comporlo. Nella rivolta l’uomo si supera nell’altro e – da questo punto di vista – la solidarietà umana è metafisica». Questa solidarietà umana fondamentale di fronte al male è al cuore di questo romanzo e del suo autore.
Moreno Bernasconi
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