Riprendiamo dal libro di Giuseppe Zois sul dolore, la speranza e oltre l’intervento dell’ex-Procuratore pubblico Antonio Perugini, che ha trattato il delicato tema della Giustizia umana vista in relazione con la Giustizia divina. Quella di Perugini è una delle trenta voci presenti nel percorso del volume.

L’ex Procuratore pubblico ticinese Antonio Perugini
Sin dall’alba dell’umanità, per i credenti dalla creazione, l’essere umano ha sempre avuto, indipendentemente dalla cultura, dalla fede religiosa, dall’invocato agnosticismo, dall’educazione ricevuta o dal contesto di vita, un innato e profondo anelito per la giustizia. Elemento direi costitutivo della vita di ognuno, sin dalla nascita. Lo si avverte già palesemente nei bambini piccoli, attenti a reagire (ed a soffrirne) di fronte a qualsiasi percepito segno di mancato riconoscimento dei propri primordiali “diritti” o di fronte a banali disparità di trattamento da parte di coetanei o di adulti. In altri termini è l’innata esigenza di voler essere trattati con parità e rispetto nel desiderio individuale di essere accettato in quanto tale, con i propri pregi e difetti, e di essere amato già per il solo fatto di esistere.
In questo senso la storia della giustizia si intreccia indissolubilmente con quella dell’evoluzione umana, dovunque, in qualsiasi epoca e contesto sociale. Non è per caso che nella Bibbia (ma anche nel Corano), uno dei termini più ricorrenti, sia proprio la parola “giustizia” con tutti i suoi molti attributi, quali: “uomo giusto”, “regno dei giusti”… L’essere umano e la giustizia hanno inevitabilmente ed ontologicamente la stessa radice comune che si situa talmente in profondità nell’animo umano da palesarsi con quel “senso di giustizia” che ognuno avverte dentro di sé. Non c’è conflitto, litigio, contrasto o guerra fra gli esseri umani, in qualsiasi epoca e continente, che non sia originato da un avvertito (vero, presunto, malinteso) “senso di ingiustizia” da una parte più debole rispetto ad un’altra prevaricante. E l’attualità ne è un atroce e disarmante esempio, dove la violenza, il sopruso, l’arroganza, la prevaricazione di alcuni detentori del potere temporale, ci stanno conducendo in questa spaventosa guerra mondiale a pezzetti, come ribadisce da tempo Papa Francesco! Se la realtà del tempo può anche essere disarmante e disperante, San Paolo nella lettera ai Romani (8, 28) avverte che “…tutto concorre al bene di coloro che amano Dio…” con la chiosa di Sant’Agostino “…anche il peccato…”. Analogamente a quanto recita più prosaicamente il popolare proverbio “non tutti i mali vengono per nuocere”. Senza questa confortante speranza, non avremmo oggi due fondamentali contributi all’affermazione dei diritti dell’individuo: la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950. Ambedue frutto della reazione di quella parte illuminata, previdente e coraggiosa di umanità a fronte della barbarie e delle atrocità dei due conflitti mondiali del Novecento. Sentirsi umanamente e legalmente “soggetto di diritti” equivale fondamentalmente ad essere riconosciuto come essere umano utile, indispensabile e degno di rispetto per il benessere dell’umanità intera. In questo senso, al di là delle odierne codificate leggi, si deve risalire all’atavica percezione nell’animo umano, della differenza fra: bene e male, giusto e ingiusto, consentito e proibito. Per meglio comprendere questo innato meccanismo dell’animo umano, ci aiuta tutta la simbologia legata alla giustizia istituzionalizzata (cioè quella delle leggi scritte e dei tribunali odierni). Partendo dal biblico albero della vita (Genesi 3, 1-13), quello da cui venne colta la famigerata mela, che altro non è se non la rappresentazione della grandezza e debolezza dell’essere umano, capace di tanto bene ma di altrettanto male, di rispettare le regole e di violarle, di amare sé stessi e il prossimo e di serbare odio e vendetta sconfinati. Nella tradizione cristiana si direbbe semplicemente: essere peccatore.
L’altura come simbolo del Paradiso
Quando ancora non esistevano i palazzi di giustizia e le aule di tribunale, per stabilire ed emanare le sentenze ci si riuniva sotto l’albero maestro o sopra qualche locale altura: è così che l’albero della giustizia ancor oggi viene rappresentato dall’addobbo rigorosamente in legno delle aule giudiziarie. Il tutto a simboleggiare che la giustizia affonda le proprie radici nella storia dell’umanità sin dai suoi albori, a garanzia della stabilità, della sicurezza e dell’affidabilità di responso per il postulante di giustizia. La necessità che si ricompongano il “bene” e il “giusto” facendoli riconoscere da qualcuno di Superiore rispetto alla fragile e fallace umanità, è sempre stato un imperativo di ogni epoca. Dio stesso ha offerto le tavole della legge a Mosè che non le ha quindi inventate da sé. Oggi chiamiamo legislatori coloro che varano le norme della civile convivenza, con giudici e magistrati che le applicano. Mosè si recò sul Sinai per prenderle in consegna e non le ottenne nella sua tenda al piano, così come oggi si salgono gli scaloni dei Palazzi di giustizia per ottenerla da chi l’amministra (a differenza di chi invece la pratica in piazza, avulsa da ogni regola e senza rispetto per nulla e per nessuno). Nella percezione umana della giustizia, ieri come oggi, v’è quindi una sorta di elevazione verso l’alto, anche fisicamente, dato che i giudici siedono sempre su uno scranno che sovrasta gli altri partecipanti alle udienze. Quasi a divinizzarne l’essenza, per dimostrarsi neutrali e al di sopra delle parti e del loro contendere. Per questo motivo i giudici anglosassoni si “svestono” della loro stessa identità personale portando la parrucca, perché nell’esercizio della loro funzione sono semplicemente “il Giudice”, così come in altre realtà continentali portano una toga e altri simboli di riconoscimento istituzionale per distinguersi dalle parti in causa.

Giotto, Giustizia, Cappella degli Scrovegni – Padova
All’insegna dell’equità
Per l’essere umano tuttavia la giustizia oltre che “giusta” deve rivelarsi anche “equa”, così come sta scritto sui frontespizi della maggior parte dei palazzi di giustizia di tradizione greco-latina (Iustitia et Aequitas). Questo perché le leggi possono anche essere “inique”, seppur istituzionalmente legittime (pensiamo solo a quelle promulgate tutt’oggi da tanti Stati, anche in Europa, contro una parte della propria popolazione che non si allinea ai voleri dei potenti del momento o per propugnare un egoistico sovranismo). L’equità è ciò che tempera la rigidità e l’inflessibilità della legge (su questo concetto rinvio all’esemplare responso di re Salomone a fronte delle due donne che rivendicavano lo stesso neonato – 1Re 3,16-28). Nella tradizione culturale greca, la giustizia con la “g” maiuscola era considerata la virtù per eccellenza (Aristotele e Platone) ed è annoverata fra le quattro virtù cardinali nella successiva tradizione cristiana. Nei “Proverbi” (V secolo a.C.) è scritto che «Praticare la giustizia e l’equità è cosa che il Signore preferisce ai sacrifici» (Proverbi 21:3). Nel nostro tempo, Papa Francesco dice che «la giustizia che pratichiamo a volte non riesce a uscire dalla gabbia del calcolo e ci limitiamo a dare secondo quanto riceviamo, senza osare qualcosa in più, senza scommettere sull’efficacia del bene fatto gratuitamente e dell’amore offerto con larghezza di cuore» (Angelus, 23 settembre 2023).
Correlazione con il trascendente
Gli stessi moderni codici penali sono orientati nella commisurazione delle pene ad assegnare ad ognuno la giusta ed equa pena considerando non solo la gravità del reato ma anche tutte le connotazioni fattuali e personali del suo autore, allo scopo di consentirgli di prendere atto delle responsabilità verso sé stesso per riscattarsi, ma soprattutto verso la/e vittima/e di cui deve cogliere il dolore e la sofferenza per evitare la recidiva e nel contempo migliorarsi umanamente. Questo processo di espiazione, di correzione, di protezione e di redenzione dell’essere umano, non è prerogativa della sola Giustizia laica e civile moderna, ma trova uno stupefacente parallelismo sul piano spirituale, nel sacramento della confessione cristiana. Infatti, davanti a Dio come davanti al Giudice ordinario, contano: l’umiltà di riconoscersi colpevolmente fragile, l’ammissione dei fatti riprovevoli praticati, la presa di coscienza della propria incapacità di evitare il male e, non da ultimo, la richiesta di comprensione/perdono. Solo a queste precise condizioni vi è il conforto della concessa assoluzione nel sacramento e l’applicazione di scusanti/attenuanti della pena in ambito di giudizio ordinario. Sia la giustizia resa da rappresentanti umani, sia quella divina, hanno quindi una stretta e connaturale relazione con il trascendente, con lo sguardo volto verso l’alto, a mo’ di cosciente riconoscimento che la personale salvezza di ognuno non può che essere nelle mani e nell’intervento di un Giudice Supremo che saprà riconoscere e valutare tutti gli aspetti anche più reconditi del tuo essere umano.
Dalla bilancia umana a quella divina
La Giustizia insomma ha un che di soprannaturale: e non a caso è sempre stata rappresentata da una Dea e non da un Dio (per tutte valga la raffigurazione di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova). A sottolineare la necessità che la Giustizia più adeguata all’umanità, pur con tutti i nostri terreni limiti nel giudizio, deve essere ed anche apparire: delicata come una madre e non possente come un guerriero, attenta all’individuo e non generalizzante, rassicurante ed affidabile per tutti, stabile e non altalenante, protettiva dei fragili e non dei prepotenti, rigenerante e non annichilente per il reo, richiamante per il colpevole e non apodittica, appagante per le vittime e confortante per il comune senso di giustizia. Se già noi percepiamo la Giustizia in questa prospettiva, figuriamoci nella visione e applicazione di un Dio che è prima di tutto “padre”.
Sarà forse per deformazione professionale o per disposizione caratteriale che non ho mai cullato, pur da cattolico credente e praticante, un’idea romantica di Paradiso tutto rose, fiori e svolazzanti esseri alati. Oso invece immaginarlo come quella condizione dell’essere ormai privo del peso del corpo, in cui la giustizia non ha più necessità di essere mendicata od invocata, poiché tutto è già intrinsecamente rassicurante e rasserenante Giustizia in Equità, con cuore di padre.
Antonio Perugini
La bilancia con i due piatti per i pesi è l’icona con cui viene raffigurata la giustizia umana. Antonio Perugini è un uomo che nella vita ha rivestito il ruolo di magistrato, quindi di chi è chiamato a interpretare i diritti di coloro che subiscono un’ingiustizia. Nato a Vall’Alta, frazione di Albino nella provincia di Bergamo, è figlio di una doppia migrazione, prima quella del padre dall’Umbria, quindi a 10 anni, con la famiglia in Svizzera. Laureato in diritto all’Università di Friborgo, ha poi ottenuto il diploma superiore di diritto comparato presso la facoltà internazionale di Strasburgo. Conseguito il brevetto di avvocato nel Cantone Ticino, dopo aver diretto il settore giuridico ed amministrativo della circolazione stradale, è stato eletto Procuratore pubblico con funzione di sostituto Procuratore Generale per un decennio. Ha svolto il non facile compito di inquirente e requirente con coerenza convinta e alto senso della responsabilità, non derogando alle norme giuridiche, ma avendo sempre presente il tormento della sofferenza umana e la dignità della persona. La pena stessa con il suo dolore può diventare una scuola di vita, anche se nel momento in cui lo si vive può essere difficile da comprendere e da vivere. Padre di 5 figli ed ora nonno (felice) di 11 nipoti, ha vissuto la dimensione pubblica accostando alla legge e ai suoi principi una visione etica e umana e con questo sestante ha esercitato il ruolo ininterrottamente per 30 anni, fino al 2019.
