Vivevamo a Villazzano di Trento e da diverse sere il nonno Stefano parlava preoccupato di questa guerra. Mi ricordo che, riponendo le mele per l’inverno sulla griglia in soffitta, se ne lamentava e mi mostrava dalle finestrelle il bagliore delle cannonate, di cui si udiva il fragore attutito oltre il monte Bondone. Nonostante la mia giovane età, avevo dieci anni, capivo che stava succedendo qualcosa di grave. La sera, poi, nella stalla del nonno, ognuno portava la sua sedia e donne e uomini stavano a fare filò (eravamo tre famiglie di parenti, nella grande casa). Ognuno diceva la sua, le donne sferruzzavano o cucivano, gli uomini intagliavano cucchiai di legno o aggiustavano piccoli attrezzi, ma tutti parlavano di questa guerra, anche perché tanti amici e parenti in età erano partiti per il fronte. Due cugini giovani avevano lasciato le mogli, una era incinta, l’altra allattava un piccolo di pochi mesi. Nella stalla si stava bene al caldo, era ottobre e cominciavano le giornate fresche soprattutto di mattina. Nonostante fosse già autunno, la scuola non era ancora iniziata, ed io, che avrei dovuto iniziare la sesta classe e completare la scuola dell’obbligo nei due anni successivi, restavo a casa, alzandomi presto con il buio per occuparmi della capra della zia Filomena. Anche le mie quattro sorelle e mio fratello maggiore svolgevano il compito loro assegnato in seno alla grande famiglia.
La mamma, ormai vedova da otto anni, aveva accettato l’aiuto dei parenti, tuttavia, essendo ancora giovane, guadagnava qualche soldo occupandosi delle pulizie a casa del Barone Mersi e poi pulendo, arrampicata su di una lunga scala, le grandi vetrate della stazione di Villazzano. Erano lavori duri per lei anche perché aveva ancora figli piccoli da seguire.
Era una donna alta, magra, con labbra sottili e una crocchia di capelli castani sulla nuca, che vestiva sempre di scuro, ma era di carattere allegro nonostante le avversità. Il suo cruccio era aver dovuto cedere me, la sua secondogenita, a sua zia Filomena, che era vedova e senza figli. In cambio di vitto e alloggio e di un’affettuosa attenzione, io le tenevo compagnia e l’aiutavo in qualche lavoretto: lavavo i piatti alla sera e, siccome ero piccolina e magrolina, la zia mi metteva sotto i piedi uno sgabello, poiché non arrivavo all’acquaio; la soda che si usava per piatti e tegami mi rendeva le manine ruvide e rosse e mi faceva scendere le lacrime. In quei momenti guardavo dalla finestrina e, vedendo casa mia con la luce accesa, pensavo alle mie sorelle e alla mamma, che erano tutte assieme mentre io ero là con la zia. A volte alla mamma dicevo: «Voi no me volé ben», e quando mi pesava portare alla capra il fastello di fieno brontolavo: «Me fa mal la schena». Allora mi prendeva bonariamente in giro: «Ma se no te ghe n’hai gnanca de schena!». Io ero sempre più convinta che non mi volesse bene, anche perché non si usava dare baci o abbracci, perché erano considerati ridicoli.
La mattina, la zia mi dava la grossa catena nera che reggeva il paiolo della polenta che si cuoceva quotidianamente sopra el fogolar, con il compito di strofinarla con la cenere e trascinarla nel ruscello tra i sassi. A me piaceva questo mestiere, perché alla fine mi divertiva correre in discesa e, arrivando al fondo, avevo una bella catena lucente, poi ritornavo su e ricominciavo tutto di nuovo.
In altre occasioni, mi aveva mandata nel podere dello zio Giovanni a prendere della frutta, lo zio aveva tanti piccoli alberi da frutto. La zia Filomena preparava, oltre alle marmellate per l’inverno, anche il Ruhm Topf in un grosso vaso di vetro: metteva a pezzi con il rhum tutta la frutta di stagione (quella volta le mancavano le pere e le mele che chiudevano questa raccolta), la quale doveva poi riposare un po’ di mesi per essere offerta a Natale, anche ai bambini, che il più delle volte con poco prendevano la ciucca, in piccoli ciotolini di coccio. Inoltre gli zii distillavano per proprio consumo, con ciliegie, pere e mele, quella che chiamavano la sgnapa per correggere a volte il caffè, ma più spesso per riscaldarsi.
Siccome non c’era ancora scuola, arrivata a casa, ogni tanto lo zio Giovanni, un altro parente, mi affidava la sua vitella da portare al pascolo in campagna. Ero molto legata a lei, era affettuosa, mi dava leccate con la sua lingua ruvida, io la pettinavo poiché aveva sulla fronte un ciuffo morbido e biondo. Le avevo dato un nome: Carolina. La spazzolavo, così era sempre pulita e bella. Un giorno le tagliai un ciuffettino piccolo e lo misi nel libro delle “Massime eterne”, legato da un nastrino. Stavo attenta a che nessuno lo vedesse perché di sicuro me lo avrebbero buttato via. Quell’anno, ricordo che una mattina la mamma ci aveva svegliato alle quattro. Ci eravamo vestiti e lavati in fretta: ci aspettavano sette chilometri a piedi per andare al santuario della Madonna di Piné alla prima messa delle sei. Io, preoccupata e mezzo addormentata, avevo nascosto il libro da messa, non volendo che si ritrovasse il ciuffo di Carolina. La mamma mi aveva tenuto sotto braccio tutto il percorso, mentre io dormivo e camminavo, camminavo e dormivo. Le mie sorelle più piccole Corina e Maria brontolavano per essere state svegliate così presto. Solo Ilario, il maschio, e Rosalia, la maggiore, seguivano in silenzio. Dopo la S. Messa la mamma ci aveva offerto una buona cioccolata calda e una fetta di Strudel, all’unica trattoria del paese. Era di conforto al nostro stomaco vuoto, senz’altro al mio che aveva gorgogliato per buona parte della messa facendomi vergognare.
Un pomeriggio, dopo aver rigovernato e foraggiato la capra, aspettavo la mamma, che, quasi ogni giorno dopo il lavoro a casa del Barone, si incamminava su per la salita per poter stare un po’ con me, che le assomigliavo sia fisicamente che di carattere. Ad un tratto, mi era giunto uno strano rumore come di animali, cavalli o muli forse, e uomini. Nella spianata e nella strada che costeggiava la casa del parroco era apparso un gruppo di uomini laceri, feriti e zoppicanti. Alcuni avevano le braccia sanguinanti legate al collo alla bell’e meglio, o le teste fasciate, altri, invece, con la disperazione negli occhi trascinavano dei muli, o forse era meglio dire che i muli trascinavano gli uomini. Gli ufficiali a cavallo, che avevano perso la loro terribile baldanza, speravano di trovare un po’ di respiro nella loro disperata ritirata. Spaventata, mi ritirai rapidamente dentro la casa. Mia madre, che stava arrivando dalla parte della canonica, riuscì in fretta ad attraversare lo spiazzo. Raggiunse così la casa ed entrò. Gli altri famigliari erano ancora tutti in campagna. Bisognava avvisarli. La mamma, mi abbracciò in un gesto di protezione e mi disse di tacere. Poi decise di mandarmi per il viottolo dietro la nostra dimora ad avvisare gli altri. Nessuno mi avrebbe vista. In fretta mi accompagnò al viottolo raccomandandomi di non fare rumore, mi seguì con lo sguardo finché mi vide sparire. Chiuse in fretta il cancello, disponendosi ad affrontare la nuova situazione. Io corsi a perdifiato: dovevo trovare il nonno e gli zii. Mi sentivo come una piccola eroina.
La mamma intanto si era affrettata su per le scale , aveva capito che in breve quegli uomini si sarebbero diretti in casa loro. Erano dei disperati, degli sbandati affamati, di sicuro avrebbero preteso cibo come minimo, e forse nemmeno senza tanti riguardi avrebbero preso anche le donne. E noi eravamo quattro figlie e un maschio, anche se poco più che adolescenti, Io, Luigia, che venivo chiamata Gigiotta, avevo dieci anni e la mia sorellina Maria, otto; gli altri erano poco più che adolescenti. Tutto questo affollava la mente di mia madre, mentre guardava nelle povere stanze per sapere se qualcuno fosse già entrato prima di lei.
Nel frattempo, nella spianata, quegli uomini si accasciavano a terra: c’era una babele di lingue. Villazzano e Trento, che erano parte in quel momento dell’Impero Austro-ungarico, facevano la conoscenza di altre lingue dell’impero: Serbo‐Croato, Ungherese, Bulgaro, Cecoslovacco, Boemo, Moravo.
Tra questi uomini, mia mamma, che si chiamava come me, notò, spiando da una finestrina, che due ufficiali a cavallo nelle loro belle divise, in origine bianche, ma ora di un colore indefinito, parlavano fra loro concitatamente: la marea di uomini sfiniti era sul punto di ribellarsi.
Nel frattempo io ero arrivata nei campi. Tutti furono sorpresi di vedermi così affannata, io cercai di spiegarmi, ma non riuscendo a farmi capire, scoppiai in lacrime. Il nonno cercò di calmarmi con le buone e riprendendo fiato riuscii a raccontare loro quello che avevo visto. In un attimo tutti furono richiamati e stabilirono il da farsi: gli zii più giovani sarebbero ritornati subito al villaggio, mentre il nonno e le zie avrebbero radunate le nipoti e i nipoti. In fretta gli zii presero le falci affilate, i falcetti e tutto ciò che avrebbe potuto difenderli, compresi dei bastoni nodosi. Si avviarono così verso casa. Il nonno, le zie e noi nipoti seguivamo a breve distanza, stando molto attenti a quel che sentivamo e che pareva sospetto.
Intanto la mamma, oltre ad essere in pena per me, non avendomi ancora vista arrivare con gli altri, temeva per la zia Filomena che viveva in una casetta poco discosta dalla grande casa. Decise perciò di discendere il piccolo viottolo nel retro e di andare a prenderla perché era vecchia e anche sorda. In fretta e furia uscì furtivamente e si diresse verso la sua casa, dove la trovò che stava preparando la polenta. Le disse che doveva seguirla senza parlare. Trovò molto difficile spiegarle l’accaduto perché l’anziana voleva finire la cottura e non capiva perché la nipote volesse trascinarla via. La mamma tirò via il paiolo dal fuoco e coperse la brace con la cenere. Uscirono appena in tempo prima che gli uomini entrassero, i quali, sentendo l’odore di polenta, gridarono qualcosa di incomprensibile che sembrava un ripetuto «PIZZAPAI PIZZAPAI», e si gettarono sulla polenta e su tutto ciò che trovarono di cibo, come impazziti, e con le mani si riempirono la bocca come bambini.
La mamma e la zia Filomena, raggiunto il cancello ed entrate, lo avevano richiuso, sentendosi così finalmente al sicuro, mente i disperati nello spiazzo prospicente la casa tentavano con disperata prepotenza di entrare nella corte.
Poi, finalmente, gli uomini di casa erano arrivati sullo spiazzo e con autorità e coraggio si erano fatti consegnare le armi in cambio del cibo che quelli chiedevano disperatamente. Gli diedero tutto ciò che avevano, però gli requisirono i cavalli ed i muli. Nello spiazzo dentro il recinto si accumulò una montagna di pistole e fucili e munizioni.
Mentre accadevano queste cose, vennero delle cugine a chiedere se avevamo visto Mercede e Pia, le loro due figlie, che non erano tornate assieme agli altri. Allora tutti allarmati, con questi uomini che giravano intorno, fecero in modo di dividersi per ritornare nei campi a cercarle. Gli zii Giovanni e Batistin andarono nel campo di granturco e lì le trovarono intirizzite e spaventate perché dicevano di essere state seguite da due soldati che le volevano prendere, ma si erano così ben nascoste che per fortuna non le avevano trovate. Rientrarono così a casa, dopo averle scaldate e rifocillate, restituendole alle loro madri.
La sera noi tutti ci barricammo in casa, mentre i soldati dormivano dappertutto, sulle scale, nel piazzale, nei ballatoi. Tutti andarono a dormire, se così si può dire, con un occhio solo.
La mamma si coricò con noi, anche se stavamo un po’ stretti, e ci ordinò di mettere il comò davanti alla porta perché nessuno entrasse.
La mattina dopo venne don Fulgenzio, il vecchio parroco, a parlare con gli ufficiali. Disse loro che non potevano restare di più perché la gente non aveva più niente da dare: erano delle famiglie che vivevano dei frutti del loro lavoro, perciò dovevano accontentarsi di ciò che avevano ricevuto. Gli ufficiali parlarono ai loro uomini, li radunarono e si prepararono alla partenza; solo chiesero un paio di cavalli per quelli che non potevano camminare, e furono accontentati. Quando se ne andarono tirammo un sospiro di sollievo. Ci ringraziarono, alcuni che riuscimmo a capire ci dissero che anche loro avevano famiglia e bambini, e alcuni carezzarono i figli più piccoli delle cugine, che avevano i mariti al fronte. Passata la paura, a noi fecero una gran pena. E la sera pregammo a piè del letto in ginocchio che il Signore Dio ci custodisse nel Suo Amore e ci mettemmo nelle intenzioni anche questi poveretti. La vita poi continuò per tutti nel solito modo, noi tornammo a scuola, mentre l’Impero andava in malora.
Maria Osterwalder La Placa
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