Era arrivato in Sardegna una decina di anni prima: aveva messo su casa; una fattoria, del bestiame. Lunghi i pranzi e le cene con amici e famiglia che da Genova prendevano il traghetto e lo andavano a scovare negli anfratti sardi. Fabrizio De André amava il suo eremo mediterraneo: un’azienda agricola, piante e vitellini, ovini e prodotti caseari. Il tutto allietato dalla sua musica e dalla sua chitarra: la pace delle montagne lo aiutava a scrivere i testi delle canzoni che avrebbe poi rifinito e registrato a Milano. Lavorare la terra scura e ritirarsi nell’entroterra settentrionale di Tempio Pausania era una scelta insolita per i cantautori allora: l’aria aperta, il paesaggio collinare e roccioso, il verde e la secchezza degli arbusti si conciliavano con il bisogno di sincera solitudine che De André cercava. Solitudine, attenzione, «come scelta, non l’isolamento, che è sinonimo di abbandono.»
In qualche modo, l’isola – che il cantautore genovese ha frequentato nelle sue aree più remote e disabitate – gli ricordava un po’ la sua anima profondamente anarchica: libera e solitaria. Semplicemente unica. In un’intervista a Vincenzo Mollica per il TG1 – una delle poche che concedeva, dal momento che le considerava «uno stress evitabile» – spiegò: «Ho sempre avuto il timore di essere protagonista e addirittura il terrore di essere invadente.» È così che si può spiegare il semi-eremitaggio autoimposto e la distanza dalla vita pubblica attiva; quella che molti suoi colleghi – molto meno talentuosi – avevano sposato per opportunismo. A De André il cosiddetto salotto – così come la partecipazione a feste di Partito (il solo e l’unico a cui i grandi e piccoli “intellettuali” si avvinghiavano) – non piaceva e non interessava. Lo imbarazzava. Meglio affondare le mani callose nella terra sarda o tra le corde della sua Esteve.
Misteriosa la Gallura, ma era il luogo in cui i serbatoi della mente del cantautore venivano riempiti da quelle che poi sarebbero state le sue composizioni-poesie. In un’intervista spiegò provocatoriamente: «C’è chi ha il mal d’Africa» – forse un’allusione al collega-cantautore Franco Battiato, che al mal d’Africa ha dedicato una canzone – «Io ho il mal di Sardegna.» Attuali le sue considerazioni – concesse sempre a Mollica – sul mare, la culla d’Europa: «Il mare separa e unisce popoli e continenti. Nel momento in cui li separa ti stimola al sogno e all’immaginazione. Nel momento in cui li unisce […] è un continuo contatto con la realtà.»
Una sera, attorno alle ventitré del 27 agosto di quarant’anni fa, un gruppo di banditi dell’Anonima sequestri entrò nella tenuta sarda del cantautore: il rapimento di De André e della sua compagna Dori Ghezzi, avvenne nel buio della notte. Poi un viaggio in Citroën e qualche ora di cammino bendati verso una meta sconosciuta. Nei mesi che seguirono, a Giuseppe De André, padre di Fabrizio, vennero chiesti due miliardi di lire per il riscatto: una cifra astronomica anche per chi era stato vicesindaco – repubblicano – di Genova e comunque fuori misura per il figlio, che gran parte dei proventi dei dischi e dei tour che aveva iniziato solo pochi anni prima li aveva investiti nella proprietà dell’Agnata.
In parte, è proprio a partire dal rapimento e dalla prigionia negli angoli remoti della Sardegna che matura in De André l’idea di fare un nuovo disco che trattasse anche dell’isola e dei suoi abitanti. Liberato poco prima del giorno di Natale del 1979, si mise immediatamente al lavoro per comporre l’album che porta il suo nome, ma che è noto al grande pubblico semplicemente come “L’indiano” (1981), per via della rappresentazione di Frederic Remington sulla copertina del disco. Un disco semi-blues, accompagnato da chitarra elettrica e batteria; e poi brani in sardo, riferimenti alla natura e alla vegetazione dell’isola mediterranea.
Considerato dalla critica l’album di “minor successo” del cantautore genovese, tra i brani emerge “Hotel Supramonte” – dal nome del complesso montuoso sardo – in cui l’artista ripercorre con il suono delle parole – accompagnate da chitarra e violino – il sequestro dei mesi precedenti. Una canzone intima e travolgente: una dichiarazione d’amore dedicata alla compagna. «E se vai all’Hotel Supramonte e guardi il cielo / Tu vedrai una donna in fiamme e un uomo solo»; «Passerà anche questa stazione senza far male / Passerà questa pioggia sottile come passa il dolore»; «Ma se ti svegli e hai ancora paura, ridammi la mano / Cosa importa se sono caduto, se sono lontano».
Caduto e rialzato: un’esperienza unica, quella della famosa coppia, nella fase calante degli Anni di Piombo; dove i sequestri, i rapimenti, gli spari in piazza, il tritolo, gli appelli e le rivendicazioni politiche erano la norma in un paese crivellato e insanguinato come l’Italia dei lunghissimi anni Settanta. Finì anche quella stagione; finì anche per Effedia. «Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole / Perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole».
Amedeo Gasparini