La fine dell’impero americano (La nave di Teseo 2024) di Alan Friedman s’interroga sul tramonto dell’egemonia statunitense. Stiamo assistendo alla conclusione di un’epoca e all’emergere di un nuovo disordine mondiale, caratterizzato da crescente instabilità e dalla sfida degli autocrati alle democrazie occidentali? La storia insegna che gli imperi declinano per diverse cause. Cattiva amministrazione, leadership debole, scarsità di risorse, espansione territoriale, omicidi politici, rivolte, guerre civili, fratture interne. Il paradosso più evidente dell’impero americano persiste. Da un lato una retorica idealistica basata sui diritti universali. Dall’altro un dopoguerra segnato da operazioni segrete della CIA e cambi di regime. Oggi si sta delineando un nuovo ordine mondiale caratterizzato da alleanze geopolitiche ed economiche fluide, che rompono equilibri e convenzioni del dopoguerra. La percezione diffusa è che gli Stati Uniti abbiano subito una frattura interna profonda. Fine dell’impero americano?
L’opera ripercorre il grande ciclo americano, analizzando i fallimenti della leadership USA nei momenti decisivi della storia. La pax americana si è rivelata breve, meno di un secolo. Ora stiamo entrando in quella che gli storici potrebbero definire l’era del Nuovo Disordine Mondiale. I padri fondatori degli Stati Uniti presentarono visioni contrastanti del nascente paese. George Washington lo definì un impero bambino. Thomas Jefferson lo immaginò come “Empire of Liberty”, un paradossale impero democratico. La “Dichiarazione d’Indipendenza” del 1776, con la sua celebre affermazione «tutti gli uomini sono creati uguali», rifletteva una concezione limitata dell’uguaglianza, riservata ai soli uomini bianchi proprietari terrieri. Jefferson considerava gli afroamericani biologicamente inferiori e fu duro verso i nativi americani. L’espansionismo territoriale caratterizzò la giovane nazione. Jefferson negoziò con Napoleone Bonaparte l’acquisto della Louisiana. James Monroe, che acquistò la Florida dalla Spagna, formulò la Dottrina Monroe, dichiarando ostile qualsiasi interferenza nell’emisfero occidentale.
James K. Polk perseguì un’aggressiva politica espansionistica, annettendo il Texas e conquistando vasti territori al Messico, che comprendono Nevada, California, Utah, Arizona, Nuovo Messico, Colorado e Wyoming. L’Indian Removal Act di Andrew Jackson facilitò questa espansione forzando lo spostamento dei nativi americani per fare spazio agli insediamenti dei coloni bianchi. Nonostante queste politiche imperialiste, l’America evitava di definirsi impero. Figure come Theodore Roosevelt, successore di William McKinley, assunsero posizioni imperialiste, definendo l’America il poliziotto del mondo e teorizzando un potere di vigilanza internazionale. Anche Woodrow Wilson, nonostante la sua immagine di idealista, manifestò tendenze imperiali. La sua personalità presentava un’evidente contraddizione. Da un lato, lo studioso di Princeton portatore di nobili ideali democratici. Dall’altro, un segregazionista del Sud, sostenuto dai suprematisti bianchi. La sua visione di un nuovo ordine mondiale basato su autodeterminazione, libertà e democrazia rifletteva queste contraddizioni.
La visione wilsoniana di una Società delle Nazioni capace di garantire la pace mondiale rimase incompiuta, mentre demagoghi, nazionalisti, antisemiti e populisti alimentavano il malcontento popolare. John Maynard Keynes aveva previsto come le severe sanzioni economiche imposte ai vinti della Prima Guerra Mondiale potessero rivelarsi un errore catastrofico. Come spesso accade dopo traumi collettivi la popolazione diventa più ricettiva alla retorica di demagoghi e nazionalisti che sfruttano paure e risentimenti. Di fronte all’aggressività giapponese in Manciuria, Franklin Delano Roosevelt poté solo ricorrere a pressioni diplomatiche e sanzioni economiche, limitato da un’opinione pubblica contraria al coinvolgimento in Europa. Nel 1938, FDR disapprovava privatamente la politica di appeasement di Neville Chamberlain, consapevole dell’inevitabilità dell’intervento militare americano. Tuttavia, per assicurarsi il terzo mandato nel 1940, dovette fingere di voler mantenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto. La sua presidenza fu segnata da una grave omissione: l’inazione di fronte alla persecuzione di ebrei.
Milioni di persone furono sterminate nei campi di concentramento mentre Roosevelt, per calcolo politico, si rifiutava di aumentare le quote per i rifugiati. Roosevelt considerava Stalin un alleato fondamentale, al punto da ignorare le sue mire egemoniche sull’Europa orientale attraverso l’installazione di governi amici. Il successore Harry Truman, caratterizzato da franchezza ma inesperienza, si trovò ad affrontare il deterioramento delle relazioni USA-URSS dopo l’uso delle bombe atomiche. Truman insisteva per governi di coalizione ed elezioni libere. La sua visione dei sovietici come nemici portò alla nascita della dottrina del contenimento, segnando un netto distacco dall’internazionalismo rooseveltiano. La metafora churchilliana della cortina di ferro da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico descrisse efficacemente la divisione dell’Europa. Le capitali dell’Europa Centrale e Orientale caddero sotto l’influenza sovietica. Washington, permeata da un’ideologia anticomunista, rispose con la dottrina Truman, impegnandosi a contrastare il comunismo su scala globale.
Questa politica, cardine della strategia americana per decenni, incarnava la formula dell’impero americano nel nome della lotta all’imperialismo comunista. In questo contesto nacque la NATO, seguita dall’era di John Fitzgerald Kennedy e dal traumatico coinvolgimento in Vietnam. Che rappresentò il primo evidente caso di overreach imperiale americano. Fu un fallimento che costò 58mila vite americane, 250mila soldati sudvietnamiti, un milione di nordvietnamiti e due milioni di civili. La Guerra Fredda aveva trasformato l’America in una potenza pronta a utilizzare metodi brutali per raggiungere i propri obiettivi. L’inesperienza di JFK, combinata con consiglieri aggressivi, portò al disastro della Baia dei Porci e alla crisi dei missili di Cuba del 1962. Henry Kissinger orchestrò il bombardamento di Hanoi del Natale 1972 e diverse guerre segrete in Cambogia e Laos. Mentre Richard Nixon presentava il ritiro dal Vietnam come una pace con onore, in realtà rappresentò la prima sconfitta dell’impero americano.
Il 1973 segnò un punto di svolta con l’embargo petrolifero dell’OPEC verso gli Stati Uniti, causando un’impennata dei prezzi e un’inflazione record. La concatenazione di eventi negativi – la sconfitta in Vietnam, lo scandalo Watergate con le prime dimissioni di un presidente americano, la crisi energetica e la grave recessione – costituì un trauma profondo per l’America. La situazione peggiorò con la Rivoluzione iraniana e la crisi degli ostaggi, che umiliò Jimmy Carter per 444 giorni fino al gennaio 1981, quando gli ostaggi furono rilasciati, proprio mentre Ronald Reagan prestava giuramento come quarantesimo presidente. La strategia reaganiana si rivelò vincente. Sconfisse l’URSS nella corsa agli armamenti attraverso una massiccia spesa militare e, con le sue politiche economiche neoliberali, accelerò il processo di globalizzazione. Nonostante le frequenti previsioni di declino, l’America ha sempre dimostrato una straordinaria capacità di rinnovarsi grazie all’innovazione tecnologica e allo spirito imprenditoriale.
L’era Reagan fu caratterizzata da un boom economico. Mentre glorificava il libero mercato, le trickle-down economics contribuirono anche alla creazione di nuove disparità sociali. Reagan promosse il North American Free Trade Agreement, ma lo scandalo Iran-Contra rivelò il lato oscuro della sua presidenza. La sua politica estera fu caratterizzata da un approccio interventista, dall’invasione di Grenada al bombardamento della Libia, espandendo la presenza militare americana a oltre novecento basi nel mondo. Reagan raddoppiò il bilancio del Pentagono a trecento miliardi di dollari e intensificò la retorica antisovietica con l’iniziativa di difesa strategica e la definizione dell’URSS come impero del male. La sua presidenza si concluse con gli Stati Uniti come unica superpotenza in un mondo unipolare. La caduta del Muro, l’autodissoluzione della Duma, la riunificazione tedesca e lo scioglimento del Patto di Varsavia trovarono George H. W. Bush impreparato. L’arrivo di Bill Clinton segnò un cambio generazionale.
Alan Greenspan e Larry Summers promossero una forte deregolamentazione del mercato dei derivati e la cartolarizzazione dei mutui subprime. Francis Fukuyama pubblicò il suo influente paper “La fine della storia?” teorizzando il trionfo definitivo della democrazia liberale occidentale come forma ultima di governo. Fukuyama, ex protégé del falco Paul Wolfowitz, trovò un’accoglienza entusiasta a Washington, con Clinton che ne fece la sua guida ideologica, nonostante lo scetticismo di figure come Irving Kristol. Mentre Tom Friedman celebrava la globalizzazione, i suoi effetti collaterali provocarono gravi perturbazioni economiche e sociali, con la dislocazione di milioni di lavoratori e l’imposizione di politiche di austerità. Clinton abbracciò le teorie neoliberiste di Reagan. L’impero americano sembrava al suo apice quando George W. Bush, ex governatore del Texas già con problemi con alcol e droga, assunse la presidenza. Ma l’11 settembre 2001 avrebbe inaugurato una nuova, tragica era.
Gli attentati hanno rappresentato per l’establishment americano molto più della distruzione di due torri. Hanno costituito una sfida al concetto stesso di eccezionalismo americano. Lo shock si è diffuso globalmente, segnando il tramonto della pax americana di Reagan. Gli Stati Uniti, fino ad allora considerati inattaccabili, scoprirono la propria vulnerabilità. Una nazione che si era cullata nella sicurezza offerta dalla fine della Guerra Fredda e dall’espansione della globalizzazione si trovò bruscamente proiettata in un clima di terrore e risentimento. Gli attacchi orchestrati da Osama bin-Laden segnarono la fine dell’“era Fukuyama”, dimostrando che l’Occidente non aveva conseguito una vittoria definitiva, ma solo superato la sfida sovietica. La risposta americana fu immediata. Bush proclamò una “guerra al terrore” globale, cercando di coalizzare la comunità internazionale attorno agli USA. L’intervento contro i campi di addestramento talebani in Afghanistan si rivelò un altro esempio del potere dell’impero americano.
La gestione della guerra afghana rappresenta un caso emblematico di amministrazione inefficace, caratterizzata da decisioni incompetenti e talvolta disoneste, guidate da un desiderio di rivalsa. Quanto all’Iraq, la decisione dell’intervento fu influenzata da motivazioni personali, incluso un presunto complotto di Saddam Hussein contro Bush padre e false accuse di connivenza con i terroristi. L’intervento in Iraq non fu solo un’operazione antiterrorismo, ma anche una questione personale per Bush, che introdusse il concetto controverso di “guerra preventiva” nonostante l’assenza di un casus belli. La dottrina Bush si rivelò essere una manifestazione di puro imperialismo, dove la verità venne subordinata alle ambizioni personali. Il tentativo di Colin Powell al Consiglio di Sicurezza di dimostrare la presenza di armi di distruzione di massa in Iraq servì come pretesto per l’invasione del marzo 2003. L’assenza di prove concrete sulle armi di distruzione di massa mise in luce la fragilità delle motivazioni di Bush.
Mentre leader europei come Jacques Chirac e Gerhard Schröder si opposero all’intervento, Tony Blair si allineò con Bush. La gestione post-invasione fu affidata a Paul Bremer III, ex esperto antiterrorismo del Dipartimento di Stato e collaboratore di Kissinger, che implementò una draconiana politica di de-baathificazione. Questa purga, intesa a eliminare i residui del regime, venne applicata in modo indiscriminato. La cattiva gestione della guerra in Afghanistan, combinata con il costoso fallimento in Iraq, provocò una grave frattura nelle relazioni con gli alleati europei tradizionali, segnando l’inizio del declino dell’impero americano. L’arrivo di Barack Obama portò un nuovo approccio, simboleggiato dal suo messaggio di riconciliazione tra America e Islam, coincidendo con l’inizio della Primavera araba. L’amministrazione Obama, nonostante le buone intenzioni, si dimostrò inefficace in politica estera. Il caso della Libia evidenziò i limiti della strategia del guidare dalle retrovie.
Il suo errore più grave fu la gestione della crisi siriana, quando Bashar al-Assad usò armi chimiche contro i propri cittadini. L’inazione americana minò la credibilità degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Anche la risposta debole all’aggressione russa in Crimea nel 2014 rivelò i limiti di un presidente. L’arrivo di Donald Trump segnò una rottura radicale. Il suo discorso inaugurale dipinse un quadro distopico dell’America, evocando madri in povertà, fabbriche abbandonate, criminalità dilagante, droga e una presunta minaccia degli immigrati. La sua retorica autocratica, sintetizzata nello slogan “America First”, preannunciò un mandato che avrebbe causato danni senza precedenti alla democrazia americana, culminati nell’assalto al Campidoglio. Trump non solo istigò la folla e tradì la Costituzione tentando di bloccare il trasferimento dei poteri. Ma compromise anche gli interessi nazionali con decisioni come il ritiro dal Partenariato Trans-Pacifico, che avvantaggiò la Cina e dall’Accordo di Parigi sul clima.
La presidenza Trump ha raggiunto il suo punto più critico durante il Covid-19, che ha causato oltre un milione di morti americani mentre il presidente suggeriva rimedi assurdi. La sua politica di “America First” ha portato alla paralisi dell’OMC, abbandonando il canonico sostegno repubblicano al libero commercio. Questa trasformazione ha segnato la fine definitiva del GOP tradizionale, con l’“America First” che è diventata sinonimo di isolazionismo. Il suo comportamento opportunistico e narcisistico si è manifestato nel tentativo di ricattare l’Ucraina condizionando l’invio di aiuti militari vitali (i Javelin) all’ottenimento di informazioni compromettenti sui Biden. La presidenza di Joe Biden è stata segnata dal ritiro da Kabul. L’evento ha rappresentato un duro colpo per il prestigio americano e ha evidenziato i limiti della politica estera statunitense post-Trump. Ma l’amministrazione Biden ha rafforzato le alleanze attraverso il Quad con Australia, Giappone e India e ha lanciato l’Inflation Reduction Act.
Negli Stati Uniti si è sviluppato un movimento bigotto ed estremista destinato a sopravvivere all’era Trump. I suoi sostenitori hanno abbandonato il sogno americano. Alcuni sono vittime della globalizzazione, altri manifestano tendenze razziste. Accomunati da rabbia e frustrazione, mostrano un’allarmante propensione verso la democrazia illiberale e l’autoritarismo. L’altra metà dell’elettorato teme Trump, mentre esiste un terzo segmento della società, disinteressato e astenuto, che ha già rinunciato alla partecipazione democratica. Questo scenario è aggravato dalla diffusione di disinformazione e teorie del complotto. Come ricorda l’aforisma attribuito a Sinclair Lewis, «Quando il fascismo verrà in America, sarà avvolto nella bandiera e porterà la croce». Gli Stati Uniti degli anni Trenta non furono immuni al fascismo europeo, come dimostra il movimento “America First” del 1940, che sotto la guida di figure come Charles Lindbergh, promuoveva isolazionismo e suprematismo bianco.
La globalizzazione non scomparirà completamente. Ma le catene di distribuzione verranno ridisegnate dalla geopolitica, con l’emergere di nuovi blocchi commerciali e un progressivo processo di frammentazione che influenzerà anche il mercato degli armamenti. Quasi metà della popolazione americana sta abbracciando le teorie del complotto e la visione distopica di Trump, segnalando l’ingresso nella fase finale dell’impero americano. Nonostante gli Stati Uniti manterranno la loro posizione dominante per almeno altri due o tre decenni, i segnali del declino sono già visibili. Tuttavia, la storia ha dimostrato la straordinaria capacità di ripresa americana, suggerendo possibili rinascite future. Il nuovo conflitto ideologico non si configura più come scontro tra comunismo e capitalismo, né come lo “scontro di civiltà” teorizzato da Samuel Huntington tra Occidente e mondo musulmano. Mentre metà della nazione si rifugia in un isolazionismo primitivo, la partita non è ancora conclusa, ma – secondo Alan Friedman – il tempo stringe.
Amedeo Gasparini
La fine dell’impero americano (La nave di Teseo 2024) di Alan Friedman s’interroga sul tramonto dell’egemonia statunitense. Stiamo assistendo alla conclusione di un’epoca e all’emergere di un nuovo disordine mondiale, caratterizzato da crescente instabilità e dalla sfida degli autocrati alle democrazie occidentali? La storia insegna che gli imperi declinano per diverse cause. Cattiva amministrazione, leadership debole, scarsità di risorse, espansione territoriale, omicidi politici, rivolte, guerre civili, fratture interne. Il paradosso più evidente dell’impero americano persiste. Da un lato una retorica idealistica basata sui diritti universali. Dall’altro un dopoguerra segnato da operazioni segrete della CIA e cambi di regime. Oggi si sta delineando un nuovo ordine mondiale caratterizzato da alleanze geopolitiche ed economiche fluide, che rompono equilibri e convenzioni del dopoguerra. La percezione diffusa è che gli Stati Uniti abbiano subito una frattura interna profonda. Fine dell’impero americano?
L’opera ripercorre il grande ciclo americano, analizzando i fallimenti della leadership USA nei momenti decisivi della storia. La pax americana si è rivelata breve, meno di un secolo. Ora stiamo entrando in quella che gli storici potrebbero definire l’era del Nuovo Disordine Mondiale. I padri fondatori degli Stati Uniti presentarono visioni contrastanti del nascente paese. George Washington lo definì un impero bambino. Thomas Jefferson lo immaginò come “Empire of Liberty”, un paradossale impero democratico. La “Dichiarazione d’Indipendenza” del 1776, con la sua celebre affermazione «tutti gli uomini sono creati uguali», rifletteva una concezione limitata dell’uguaglianza, riservata ai soli uomini bianchi proprietari terrieri. Jefferson considerava gli afroamericani biologicamente inferiori e fu duro verso i nativi americani. L’espansionismo territoriale caratterizzò la giovane nazione. Jefferson negoziò con Napoleone Bonaparte l’acquisto della Louisiana. James Monroe, che acquistò la Florida dalla Spagna, formulò la Dottrina Monroe, dichiarando ostile qualsiasi interferenza nell’emisfero occidentale.
James K. Polk perseguì un’aggressiva politica espansionistica, annettendo il Texas e conquistando vasti territori al Messico, che comprendono Nevada, California, Utah, Arizona, Nuovo Messico, Colorado e Wyoming. L’Indian Removal Act di Andrew Jackson facilitò questa espansione forzando lo spostamento dei nativi americani per fare spazio agli insediamenti dei coloni bianchi. Nonostante queste politiche imperialiste, l’America evitava di definirsi impero. Figure come Theodore Roosevelt, successore di William McKinley, assunsero posizioni imperialiste, definendo l’America il poliziotto del mondo e teorizzando un potere di vigilanza internazionale. Anche Woodrow Wilson, nonostante la sua immagine di idealista, manifestò tendenze imperiali. La sua personalità presentava un’evidente contraddizione. Da un lato, lo studioso di Princeton portatore di nobili ideali democratici. Dall’altro, un segregazionista del Sud, sostenuto dai suprematisti bianchi. La sua visione di un nuovo ordine mondiale basato su autodeterminazione, libertà e democrazia rifletteva queste contraddizioni.
La visione wilsoniana di una Società delle Nazioni capace di garantire la pace mondiale rimase incompiuta, mentre demagoghi, nazionalisti, antisemiti e populisti alimentavano il malcontento popolare. John Maynard Keynes aveva previsto come le severe sanzioni economiche imposte ai vinti della Prima Guerra Mondiale potessero rivelarsi un errore catastrofico. Come spesso accade dopo traumi collettivi la popolazione diventa più ricettiva alla retorica di demagoghi e nazionalisti che sfruttano paure e risentimenti. Di fronte all’aggressività giapponese in Manciuria, Franklin Delano Roosevelt poté solo ricorrere a pressioni diplomatiche e sanzioni economiche, limitato da un’opinione pubblica contraria al coinvolgimento in Europa. Nel 1938, FDR disapprovava privatamente la politica di appeasement di Neville Chamberlain, consapevole dell’inevitabilità dell’intervento militare americano. Tuttavia, per assicurarsi il terzo mandato nel 1940, dovette fingere di voler mantenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto. La sua presidenza fu segnata da una grave omissione: l’inazione di fronte alla persecuzione di ebrei.
Milioni di persone furono sterminate nei campi di concentramento mentre Roosevelt, per calcolo politico, si rifiutava di aumentare le quote per i rifugiati. Roosevelt considerava Stalin un alleato fondamentale, al punto da ignorare le sue mire egemoniche sull’Europa orientale attraverso l’installazione di governi amici. Il successore Harry Truman, caratterizzato da franchezza ma inesperienza, si trovò ad affrontare il deterioramento delle relazioni USA-URSS dopo l’uso delle bombe atomiche. Truman insisteva per governi di coalizione ed elezioni libere. La sua visione dei sovietici come nemici portò alla nascita della dottrina del contenimento, segnando un netto distacco dall’internazionalismo rooseveltiano. La metafora churchilliana della cortina di ferro da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico descrisse efficacemente la divisione dell’Europa. Le capitali dell’Europa Centrale e Orientale caddero sotto l’influenza sovietica. Washington, permeata da un’ideologia anticomunista, rispose con la dottrina Truman, impegnandosi a contrastare il comunismo su scala globale.
Questa politica, cardine della strategia americana per decenni, incarnava la formula dell’impero americano nel nome della lotta all’imperialismo comunista. In questo contesto nacque la NATO, seguita dall’era di John Fitzgerald Kennedy e dal traumatico coinvolgimento in Vietnam. Che rappresentò il primo evidente caso di overreach imperiale americano. Fu un fallimento che costò 58mila vite americane, 250mila soldati sudvietnamiti, un milione di nordvietnamiti e due milioni di civili. La Guerra Fredda aveva trasformato l’America in una potenza pronta a utilizzare metodi brutali per raggiungere i propri obiettivi. L’inesperienza di JFK, combinata con consiglieri aggressivi, portò al disastro della Baia dei Porci e alla crisi dei missili di Cuba del 1962. Henry Kissinger orchestrò il bombardamento di Hanoi del Natale 1972 e diverse guerre segrete in Cambogia e Laos. Mentre Richard Nixon presentava il ritiro dal Vietnam come una pace con onore, in realtà rappresentò la prima sconfitta dell’impero americano.
Il 1973 segnò un punto di svolta con l’embargo petrolifero dell’OPEC verso gli Stati Uniti, causando un’impennata dei prezzi e un’inflazione record. La concatenazione di eventi negativi – la sconfitta in Vietnam, lo scandalo Watergate con le prime dimissioni di un presidente americano, la crisi energetica e la grave recessione – costituì un trauma profondo per l’America. La situazione peggiorò con la Rivoluzione iraniana e la crisi degli ostaggi, che umiliò Jimmy Carter per 444 giorni fino al gennaio 1981, quando gli ostaggi furono rilasciati, proprio mentre Ronald Reagan prestava giuramento come quarantesimo presidente. La strategia reaganiana si rivelò vincente. Sconfisse l’URSS nella corsa agli armamenti attraverso una massiccia spesa militare e, con le sue politiche economiche neoliberali, accelerò il processo di globalizzazione. Nonostante le frequenti previsioni di declino, l’America ha sempre dimostrato una straordinaria capacità di rinnovarsi grazie all’innovazione tecnologica e allo spirito imprenditoriale.
L’era Reagan fu caratterizzata da un boom economico. Mentre glorificava il libero mercato, le trickle-down economics contribuirono anche alla creazione di nuove disparità sociali. Reagan promosse il North American Free Trade Agreement, ma lo scandalo Iran-Contra rivelò il lato oscuro della sua presidenza. La sua politica estera fu caratterizzata da un approccio interventista, dall’invasione di Grenada al bombardamento della Libia, espandendo la presenza militare americana a oltre novecento basi nel mondo. Reagan raddoppiò il bilancio del Pentagono a trecento miliardi di dollari e intensificò la retorica antisovietica con l’iniziativa di difesa strategica e la definizione dell’URSS come impero del male. La sua presidenza si concluse con gli Stati Uniti come unica superpotenza in un mondo unipolare. La caduta del Muro, l’autodissoluzione della Duma, la riunificazione tedesca e lo scioglimento del Patto di Varsavia trovarono George H. W. Bush impreparato. L’arrivo di Bill Clinton segnò un cambio generazionale.
Alan Greenspan e Larry Summers promossero una forte deregolamentazione del mercato dei derivati e la cartolarizzazione dei mutui subprime. Francis Fukuyama pubblicò il suo influente paper “La fine della storia?” teorizzando il trionfo definitivo della democrazia liberale occidentale come forma ultima di governo. Fukuyama, ex protégé del falco Paul Wolfowitz, trovò un’accoglienza entusiasta a Washington, con Clinton che ne fece la sua guida ideologica, nonostante lo scetticismo di figure come Irving Kristol. Mentre Tom Friedman celebrava la globalizzazione, i suoi effetti collaterali provocarono gravi perturbazioni economiche e sociali, con la dislocazione di milioni di lavoratori e l’imposizione di politiche di austerità. Clinton abbracciò le teorie neoliberiste di Reagan. L’impero americano sembrava al suo apice quando George W. Bush, ex governatore del Texas già con problemi con alcol e droga, assunse la presidenza. Ma l’11 settembre 2001 avrebbe inaugurato una nuova, tragica era.
Gli attentati hanno rappresentato per l’establishment americano molto più della distruzione di due torri. Hanno costituito una sfida al concetto stesso di eccezionalismo americano. Lo shock si è diffuso globalmente, segnando il tramonto della pax americana di Reagan. Gli Stati Uniti, fino ad allora considerati inattaccabili, scoprirono la propria vulnerabilità. Una nazione che si era cullata nella sicurezza offerta dalla fine della Guerra Fredda e dall’espansione della globalizzazione si trovò bruscamente proiettata in un clima di terrore e risentimento. Gli attacchi orchestrati da Osama bin-Laden segnarono la fine dell’“era Fukuyama”, dimostrando che l’Occidente non aveva conseguito una vittoria definitiva, ma solo superato la sfida sovietica. La risposta americana fu immediata. Bush proclamò una “guerra al terrore” globale, cercando di coalizzare la comunità internazionale attorno agli USA. L’intervento contro i campi di addestramento talebani in Afghanistan si rivelò un altro esempio del potere dell’impero americano.
La gestione della guerra afghana rappresenta un caso emblematico di amministrazione inefficace, caratterizzata da decisioni incompetenti e talvolta disoneste, guidate da un desiderio di rivalsa. Quanto all’Iraq, la decisione dell’intervento fu influenzata da motivazioni personali, incluso un presunto complotto di Saddam Hussein contro Bush padre e false accuse di connivenza con i terroristi. L’intervento in Iraq non fu solo un’operazione antiterrorismo, ma anche una questione personale per Bush, che introdusse il concetto controverso di “guerra preventiva” nonostante l’assenza di un casus belli. La dottrina Bush si rivelò essere una manifestazione di puro imperialismo, dove la verità venne subordinata alle ambizioni personali. Il tentativo di Colin Powell al Consiglio di Sicurezza di dimostrare la presenza di armi di distruzione di massa in Iraq servì come pretesto per l’invasione del marzo 2003. L’assenza di prove concrete sulle armi di distruzione di massa mise in luce la fragilità delle motivazioni di Bush.
Mentre leader europei come Jacques Chirac e Gerhard Schröder si opposero all’intervento, Tony Blair si allineò con Bush. La gestione post-invasione fu affidata a Paul Bremer III, ex esperto antiterrorismo del Dipartimento di Stato e collaboratore di Kissinger, che implementò una draconiana politica di de-baathificazione. Questa purga, intesa a eliminare i residui del regime, venne applicata in modo indiscriminato. La cattiva gestione della guerra in Afghanistan, combinata con il costoso fallimento in Iraq, provocò una grave frattura nelle relazioni con gli alleati europei tradizionali, segnando l’inizio del declino dell’impero americano. L’arrivo di Barack Obama portò un nuovo approccio, simboleggiato dal suo messaggio di riconciliazione tra America e Islam, coincidendo con l’inizio della Primavera araba. L’amministrazione Obama, nonostante le buone intenzioni, si dimostrò inefficace in politica estera. Il caso della Libia evidenziò i limiti della strategia del guidare dalle retrovie.
Il suo errore più grave fu la gestione della crisi siriana, quando Bashar al-Assad usò armi chimiche contro i propri cittadini. L’inazione americana minò la credibilità degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Anche la risposta debole all’aggressione russa in Crimea nel 2014 rivelò i limiti di un presidente. L’arrivo di Donald Trump segnò una rottura radicale. Il suo discorso inaugurale dipinse un quadro distopico dell’America, evocando madri in povertà, fabbriche abbandonate, criminalità dilagante, droga e una presunta minaccia degli immigrati. La sua retorica autocratica, sintetizzata nello slogan “America First”, preannunciò un mandato che avrebbe causato danni senza precedenti alla democrazia americana, culminati nell’assalto al Campidoglio. Trump non solo istigò la folla e tradì la Costituzione tentando di bloccare il trasferimento dei poteri. Ma compromise anche gli interessi nazionali con decisioni come il ritiro dal Partenariato Trans-Pacifico, che avvantaggiò la Cina e dall’Accordo di Parigi sul clima.
La presidenza Trump ha raggiunto il suo punto più critico durante il Covid-19, che ha causato oltre un milione di morti americani mentre il presidente suggeriva rimedi assurdi. La sua politica di “America First” ha portato alla paralisi dell’OMC, abbandonando il canonico sostegno repubblicano al libero commercio. Questa trasformazione ha segnato la fine definitiva del GOP tradizionale, con l’“America First” che è diventata sinonimo di isolazionismo. Il suo comportamento opportunistico e narcisistico si è manifestato nel tentativo di ricattare l’Ucraina condizionando l’invio di aiuti militari vitali (i Javelin) all’ottenimento di informazioni compromettenti sui Biden. La presidenza di Joe Biden è stata segnata dal ritiro da Kabul. L’evento ha rappresentato un duro colpo per il prestigio americano e ha evidenziato i limiti della politica estera statunitense post-Trump. Ma l’amministrazione Biden ha rafforzato le alleanze attraverso il Quad con Australia, Giappone e India e ha lanciato l’Inflation Reduction Act.
Negli Stati Uniti si è sviluppato un movimento bigotto ed estremista destinato a sopravvivere all’era Trump. I suoi sostenitori hanno abbandonato il sogno americano. Alcuni sono vittime della globalizzazione, altri manifestano tendenze razziste. Accomunati da rabbia e frustrazione, mostrano un’allarmante propensione verso la democrazia illiberale e l’autoritarismo. L’altra metà dell’elettorato teme Trump, mentre esiste un terzo segmento della società, disinteressato e astenuto, che ha già rinunciato alla partecipazione democratica. Questo scenario è aggravato dalla diffusione di disinformazione e teorie del complotto. Come ricorda l’aforisma attribuito a Sinclair Lewis, «Quando il fascismo verrà in America, sarà avvolto nella bandiera e porterà la croce». Gli Stati Uniti degli anni Trenta non furono immuni al fascismo europeo, come dimostra il movimento “America First” del 1940, che sotto la guida di figure come Charles Lindbergh, promuoveva isolazionismo e suprematismo bianco.
La globalizzazione non scomparirà completamente. Ma le catene di distribuzione verranno ridisegnate dalla geopolitica, con l’emergere di nuovi blocchi commerciali e un progressivo processo di frammentazione che influenzerà anche il mercato degli armamenti. Quasi metà della popolazione americana sta abbracciando le teorie del complotto e la visione distopica di Trump, segnalando l’ingresso nella fase finale dell’impero americano. Nonostante gli Stati Uniti manterranno la loro posizione dominante per almeno altri due o tre decenni, i segnali del declino sono già visibili. Tuttavia, la storia ha dimostrato la straordinaria capacità di ripresa americana, suggerendo possibili rinascite future. Il nuovo conflitto ideologico non si configura più come scontro tra comunismo e capitalismo, né come lo “scontro di civiltà” teorizzato da Samuel Huntington tra Occidente e mondo musulmano. Mentre metà della nazione si rifugia in un isolazionismo primitivo, la partita non è ancora conclusa, ma – secondo Alan Friedman – il tempo stringe.
Amedeo Gasparini