L’occasione mancata. Mani Pulite trent’anni dopo (Laterza 2021) è un titolo che la dice lunga. Si tratta dell’amara conclusione dell’autore e protagonista del tempo, l’ex pubblico ministero Piercamillo Davigo. Che dallo scandalo delle carceri d’oro passa in rassegna tutti gli snodi cruciali dell’inchiesta di Mani Pulite. Il ciclone giudiziario del 1992 si espanse dal livello locale lombardo fino ai vertici dello Stato, coinvolgendo a macchia d’olio tutti i partiti. Mentre la classe politica riceveva avvisi di garanzia, l’inchiesta è era ampiamente sostenuta dall’entusiasmo popolare. Coinvolta anche l’imprenditoria: come la politica, prima locale e poi nazionale. Davigo racconta i casi di Enimont, Eni, Enel, nonché le vicende della corruzione della Guardia di Finanza; Imi-Sir, Lodo Mondadori e SME. Il primo dei personaggi ad essere ricordati nel libro è Giovanni Falcone, che ebbe formidabili intuizioni in campo giudiziario, poi applicate anche dal pool milanese.
Falcone insegnò ai magistrati a lavorare in gruppo, compiere indagini bancarie ed esaminare la direzione dei fondi neri, a centralizzare connessioni e attori attorno alle indagini in un’unità singola. Il primo atto di Mani Pulite fu l’arresto di Mario Chiesa, il 17 febbraio 1992, quando il funzionario socialista fu colto in flagranza di concussione in danno di Luca Magni, proprietario di un’impresa di pulizie, costretto a pagare tangenti per lavorare al Pio Albergo Trivulzio. Arrestato, Chiesa chiamò in correità numerosi imprenditori che avevano ottenuto altri appalti in questo modo. Questi poi chiamarono in causa a loro volta altri politici e funzionari a cui avevano dato denaro. Il capo del Partito Socialista Bettino Craxi scaricò il “mariuolo”, salvo poi ammettere alla Camera il 3 luglio 1992 che «il finanziamento illegale dei partiti in Italia è un fatto vero è largamente noto». Davigo dà risposte alle obiezioni mosse contro il pool.
Dov’erano i magistrati prima di Mani Pulite? «In realtà né i miei colleghi né io, pur sospettando che i casi che emergevano fossero tutt’altro che isolati, immaginavamo quello che poi emerse». Il 27 aprile Gherardo Colombo affiancò Antonio Di Pietro. Con ferie arretrate, Davigo invece andò in vacanza con i primi verbali dell’inchiesta. Non era entusiasta del compito affidatogli dal procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, dal momento che il nuovo caso si scontrava con il suo desiderio di un trasferimento in Corte di Appello. «Sarei dovuto rimanere in Procura per almeno altri quattro o cinque anni e pensai che, al mio rientro in servizio, avrei chiesto che il procedimento fosse assegnato a qualcun altro». Con la strage di Capaci i piani di Davigo andarono in fumo. «Mi vergognai di me stesso per aver anche solo pensato di sottrarmi a quello che mi era stato chiesto di fare».
Da Mani Pulite «emerse fu uno spaccato della realtà dei rapporti economici e di potere che caratterizzavano la vita pubblica italiana del tutto sconosciuto ai più. Fu un’occasione persa per rendere più trasparente la vita politica ed economica dell’Italia». Corruzione e concussione sono reati difficili da indagare. «La corruzione è un reato a cifra nera elevatissima (la cifra nera è la differenza fra i delitti commessi e quelli denunciati) […] mentre i […] furti d’auto vengono denunciati quasi tutti, i casi di corruzione non vengono denunciati quasi mai». L’Italia non era estranea a casi di corruzione. Lo scandalo Lockheed (1976) coinvolgeva diversi paesi a cui venivano venduti aerei C-130 dietro miliardi di Lire in mazzette. Tuttavia, non ci fu la crisi scoppiata con Mani Pulite. Stesso discorso con la scoperta della P2, scrutinata dalla commissione parlamentare presieduta da Tina Anselmi e bollata come un’organizzazione criminale eversiva.
Poi ci furono lo scandalo dei petroli, dei fondi neri dell’IRI, delle carceri d’oro, di cui Davigo sia occupato con Filippo Grisolia. Mani Pulite poggiava sull’esistenza di mercati illegali o occulti, retti sull’omertà delle parti. Con il cambio del nuovo Codice di Procedura Penale del 1988 la polizia giudiziaria lavorava fianco a fianco al pm. L’autore ricorda inoltre i rapporti con i colleghi del pool. Di Pietro organizzava l’attività degli ufficiali di polizia giudiziaria e raccoglieva le confessioni degli indagati. «Vi era la fila di avvocati con i loro clienti che, essendosi sparsa la notizia che molti collaboravano, volevano anticipare le chiamate in correità altrui». Colombo approfondiva i documenti sequestrati delle perquisizioni. Davigo scriveva le richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di parlamentari. Il pool lavorava in sincronia. Nel 1993 arrivarono Francesco Greco e Paolo Ielo, poi Tiziana Parenti; dunque, Elio Ramondini.
La squadra era coordinata dal capo procuratore Francesco Saverio Borrelli e dal vice D’Ambrosio. Durante Mani Pulite l’opinione pubblica si schierò a favore delle indagini per smantellare Tangentopoli. La corruzione era diventata sistema […]. Tutti i giorni, per due anni, sotto il Palazzo di Giustizia vi erano manifestazioni a sostegno del pool. La giustificazione di molti indagati fu che il procacciamento di fondi serviva al sostegno dell’attività polizia, non per le loro tasche. Dunque, cadeva la corruzione. Corregge Davigo: «I politici che procuravano finanziamenti illeciti al loro partito, da un lato, acquisivano una straordinaria capacità di ricatto verso i vertici del partito e, dall’altro, rafforzavano il loro peso e il loro potere all’interno del partito stesso». Ad esempio, le tangenti di Chiesa servivano a pagare parzialmente le tessere degli iscritti al PSI. Questo era contro la legge del finanziamento pubblico ai partiti, visto che non erano iscritti a bilancio.
Arresto dopo arresto, magistrati e politici s’interrogavano su possibili soluzioni. Nel 1992 emerse il Decreto Conso, che intendeva depenalizzare il reato di finanziamento illecito. Colombo aveva suggerito «di approvare una normativa che permettesse di far trapelare tutto quanto prima ([…] riduzioni di pena o la non punibilità per chi confessasse e restituisse […] il profitto dei reati), in modo da […] consentire una ripresa dell’attività politica su nuove basi». Secondo Davigo, il Decreto andava in direzione opposta. Fu ritirato. Immancabile il giudizio sul Decreto Biondi del 1994, che intendeva limitare la possibilità di ricorrere alla custodia cautelare per i reati dei colletti bianchi. Durante Mani Pulite «Sussistevano quasi sempre le esigenze cautelari previste dal Codice di Procedura Penale (pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga e pericolo di reiterazione di reati della stessa specie)». Per voce di Di Pietro, il pool si espresse in tv contro il Decreto.
Il meccanismo di concorrenza tra imprese per aggiudicarsi un appalto fu distrutto sull’altare della tangente da un patto consociativo. Secondo Davigo, «le persone coinvolte nelle indagini non subirono conseguenze di particolare rilievo sul piano penale e […] neppure sul piano della loro fortuna politica o imprenditoriale». Solo il sedici per cento delle condanne derivanti dalle inchieste di Mani Pulite è tra due e tre anni. «Le condanne per il delitto di corruzione erano a pene decisamente più basse […]. Quanto ai corruttori, la scelta di ricorrere largamente al patteggiamento salvò molti procedimenti dalla prescrizione». Non stupì che al referendum del 18 aprile 1993 al quesito sull’abrogazione del finanziamento pubblico il novanta per cento dei votanti si espresse a favore. Ma per Davigo il finanziamento pubblico è comunque «essenziale per evitare che solo i ricchi o i ladri possano ottenere successi politici».
Davigo si dice «seriamente convinto della funzione di selezione della specie che gli organi repressivi svolgono». «In nessun paese ed in nessuna epoca storica è mai accaduto che la criminalità sia stata cancellata completamente». Davigo trae due lezioni da Mani Pulite. La prima: non si può processare un sistema prima che questo sia accaduto. Negli anni il debito pubblico «è stato determinato soprattutto dalla distribuzione a pioggia di denaro pubblico […]. La classe politica, incapace di cementare il consenso sui valori, ha […] corrotto gli elettori con provvidenze in cambio del consenso». La seconda lezione è che non c’è una etica condivisa in Italia. «Se scattasse la riprovazione sociale […], i tribunali processerebbero degli “ex”, già allontanati dai posti di responsabilità dai loro pari e cesserebbero […] le tensioni fra i poteri dello Stato».
Amedeo Gasparini