Pomeriggio intenso, ieri all’Hotel Dante di Lugano, per il PEN International Centro della Svizzera italiana e retoromancia, la cui seduta straordinaria ha portato ad alcune modifiche dello statuto per allinearsi con le linee guida delle altre associazioni PEN. In particolare, è stato fissato il termine di tre anni per il Comitato direttivo, rinnovabile una sola volta, “in linea di massima” è stato aggiunto, viste le difficoltà a trovare sostituti. Sono state riconfermate la Presidente Maria Emilia Arioli e la Segretaria generale Maria Raffaella Bruno Realini. Per il resto: bilancio praticamente in pari, mentre intense sono state le attività svolte dai vari comitati nel 2018-2019. Oltre alla partecipazione alle diverse assemblee internazionali, numerosi sono stati gli incontri promossi sul territorio, l’avvio con Trieste del ciclo dedicato alle città, seguita da Istanbul, mentre le Giornate dello Scrittore in Prigione si sono concentrate sull’Eritrea, al di là dell’impegno svolto all’estero. In quanto ai diritti linguistici sono state messe a confronto Canada Spagna e Svizzera, in un mini-simposio che, è stato anticipato dalla delegata Bruno Realini, avrà una seconda edizione nel maggio prossimo, riservata alle lingue policentriche, a partire dall’italiano, parlato in Italia, in Svizzera e il “traduttese” della Confederazione.
È seguito il momento riservato a Silvana Lattmann, a cui è stato conferito il titolo di Socia onoraria e che ha superato brillantemente la soglia dei cento anni, come ha raccontato l’amica ed estimatrice, Presidente onoraria del PEN, Franca Tiberto (la scrittrice, che vive a Zurigo, non ha potuto essere presente): dà lezioni d’italiano, è nuotatrice esperta e instancabile… Al seguito della sua parola-guida, l’amore. Genova, Napoli, Roma, sposata solo per pochi mesi, il suo primo marito scomparve in guerra. Tiberto ha letto anche una testimonianza riportata da Incustodite distanze, che rivela come è diventata scrittrice, tardi, negli anni ’70 (la sua formazione è scientifica), per avere acquistato un tavolino su cui ha posato la macchina per scrivere, una Lettera 22 (come quella di Montanelli), lasciata dal secondo marito, che le diede anche il cognome svizzero. Così iniziò a scrivere. L’esordio pubblico avvenne nel ‘78 con Quindici poesie.
Ma della sua opera si è occupata la laudatio di Gilberto Isella, che l’ha definita un’autrice poliedrica, libera da mode e condizionamenti; infatti, citando Giovanni Orelli, nell’ambito della nostra letteratura “occupa un isolotto tutto suo”, tanto da escluderla (colpevolmente) dal volume di Bonalumi, Martinoni, Mengaldo, Cento anni di poesia nella Svizzera italiana. Partita dalla biologia, dalle scienze naturali, in cui era laureata, materie che insegnava, e dall’Italia per poi approdare in Svizzera negli anni ’50, intellettuale d’ampie vedute invece incarna proprio la figura dell’autore di frontiera che più ci appartiene. L’esordio è poetico, ma la sua scrittura spazia anche nella narrativa e saggistica, capace di rinnovarsi in continuazione, tra reale e immaginario, nella contaminazione di generi e linguaggi, nello stile, struttura e semantica, eppure, ha notato Isella, in strategie scrittorie senza forzature sperimentali, di facciata. Un’avventura letteraria complessa e politematica, in cui ogni tema, nella vastità scelta, interagisce con quello contiguo, ad iniziare dal viaggio, di corpo e anima, il naturalismo sempre teso a trasfigurarsi nel fiabesco e a cogliere il senso della precarietà esistenziale, a cui non manca una forte dimensione etica. Dall’essere umano alla visione cosmica, in una relazione binaria e con un richiamo anche all’esoterismo. Tra tema reale, disincanto e utopia, ha dato testimonianza di sé anche nell’autobiografico Nata il 1918. Freschissimo è I colori della guerra, Interlinea.
Si è voltata pagina con il successivo incontro pubblico (ma, a dire la verità, scarsa era la platea), Belgrado: Casablanca serba (prendendo il nome dalla nota antologia di racconti), moderato da Sergej Roić che ha anche tradotto dal serbo, il terzo dedicato al ciclo delle città, dopo appunto Trieste e Istanbul, ospiti Dušan Veličković (1947), giornalista e scrittore, ora anche regista e Sanja Nikolić (44 anni), distanti per anni e per scelte di vita, lui è tornato nel suo paese, dopo un periodo di esilio dovuto all’opposizione a Milošević, lei è immigrata a Berlino, come molti altri per motivi artistici, economici, politici, ma uniti dalle vicende storiche che hanno fatto da scenario alla loro esistenza. Per Veličković il passaggio dal giornalismo alla scrittura è stato quasi obbligato perché, ha spiegato, per rendere una realtà così complessa come Belgrado, non bastava più la cronaca giornalistica che comunque è confinante, esistendo in essa sempre un margine di creatività. Ha rivendicato l’appartenenza di Belgrado alla Mitteleuropa (evocando la polemica tra Brodskij e Kundera), con una metafora gastronomica: nella città serba si trovano Sacher (la torta viennese per eccellenza) e Baklava (il dolce orientale), ottime versioni di entrambe. Il problema oggi è la povertà, le nostalgie populiste e reazionarie che incidono sulla vita culturale e letteraria. Ognuno resta isolato, non c’è un sentimento della collettività, orgogli patriottici si ritrovano anche nelle opere, non c’è interesse per una letteratura che possa narrare la realtà, la verità, che provochi riflessioni, è l’amara constatazione, anche se ci possono essere sacche resistenti di creatività, sopravvive comunque una circolazione delle buone idee…
Diversa la posizione di Sanja Nikolić che ha scelto la scrittura quando si rese conto che era l’unica cosa che sapeva fare e non era neanche più giovanissima, ma non voleva neppure trattare temi sociali o locali, quelli degli scrittori di Belgrado, la sua è stata una sfida, andare via, alla ricerca di una identità; appartiene alla generazione dei nomadi, nomade del resto lo è sempre stata, essendo nata a Spalato ed essendosi trasferita diverse volte nella ex Jugoslavia. Si è fermata a Berlino e ha cominciato dal basso, a fare i lavori più umili, fino a scrivere un romanzo di successo, acquistato e letto anche a Belgrado, non tradotto ancora in italiano, Sila i Soni u Berlinu, “Sila e Soni a Berlino”, storia d’amore ed emigrazione appunto.
Dušan è tornato sulla questione della spaccatura del paese, della sindrome d’isolamento che ha provocato e che si ritrova anche nell’autobiografismo, nell’autoreferenzialità letterari, non riescono ad uscire da queste tematiche personali, dopo la fine della guerra, la Storia tiene in ostaggio gli scrittori, allora sempre più emigrano, lasciano Belgrado. Eppure, afferma con un certo cinismo, ci sarebbero temi formidabili da trattare, terribili, che farebbero la fortuna di uno scrittore, basta pensare ai cimiteri di massa… Questa situazione potrebbe far nascere anche nuovi movimenti, ipotizza con una certa ironia, come la Jugosfera (già codificata) specchio della molteplicità, oppure con un termine inventato sul momento, lo Jugofuturismo, un movimento letterario di rinascita, per cercare di riunire un pensiero ormai diviso.
Sanja invece si sente di appartenere alla generazione perduta (ma si unirà a lei anche Dusan), lei che aveva partecipato a quindici anni alle manifestazioni contro Milošević, avevano sperato in qualcosa di meglio, dopo la sua sconfitta, ma non è stato così. Con l’assassinio del premier Đinđić, hanno perduto un idolo, sono state tradite le attese, la ricchezza depredata. Adesso sono in molti a vivere nella nostalgia di “prima”, dei tempi di Tito, un dittatore sì, ma non come gli altri. Sono d’accordo i due scrittori nel descrivere una Belgrado isolata, dove ognuno vive per conto suo. L’uno con un po’ più di ottimismo, lei più pessimista rispetto al suo paese dove la competizione è vissuta negativamente (in riferimento al suo successo editoriale). Sanja Nikolić osserva che a Berlino non è così.
Manuela Camponovo