Eterna giovinezza delle Cantate di Bach! Se ne è avuta una dimostrazione la sera del 24 febbraio, con la riproposta di quattro di esse da parte de i Barocchisti, diretti per una volta non da Diego Fasolis ma da Luca Pianca, conosciuto finora soprattutto come liutista. Era pur sempre “scandaloso” che Lugano avesse finora ignorato come Pianca abbia già diretto, a Vienna, una buona metà dell’immenso corpus di quelle Cantate, prima di essere invitato a darne una prova tra i suoi concittadini. La presenza di un folto pubblico compensava il torto fatto al bravissimo artista cittadino.
In sede di commento mi piace constatare in quanti modi successivi nella mia vita ho avuto la possibilità di apprezzare questo genere di repertorio. Ricordo di aver comprato l’integrale delle Cantate incisa da Nikolaus Harnoncourt, uscita negli anni Settanta, poi quella diretta da Helmuth Rilling negli anni Ottanta… e poi di aver lasciato perdere (perché negli armadi non ce ne stavano più…) le molte altre successive… Da allora sono cambiate le prassi esecutive. Alcune di quelle scelte si sono rivelate improvvide, come quella di affidare a ragazzi le arie solistiche: scelta talmente problematica da indurre alla conclusione che, sì, Bach potrebbe aver affidato qualche ruolo ai “pueri cantores” della sua scuola di grammatica e di canto, ma non tutte le parti e tutte le cantate: era il director musicae di Lipsia e non gli mancavano i mezzi per affidarne l’incarico – come del resto per gli strumenti – ad adulti capaci. Ma anche nel canto degli stessi adulti molte cose sono cambiate: la lezione di Dietrich Fischer-Dieskau o di Christa Ludwig rimane ineguagliata per intensità e partecipazione, ma chi oggi si azzarderebbe a imitare una vocalità espansa come la loro, a preferenza di un asciutto rigore come si vuole oggi? Ancora più straordinario appare il cambiamento nelle parti orchestrali: la ricerca sugli strumenti d’epoca ha cambiato le carte in tavola, la rinuncia al vibrato degli archi ha modificato la percezione sonora. Su molte scelte, è vero, i pareri divergono. Ma alla prestazione di un complesso come i Barocchisti va ben riconosciuta la definizione data, seduta stante, dallo stesso Pianca: «la Ferrari delle orchestre!».
Rimane sullo sfondo l’esigenza di non fermarsi al piacere del bel suono, dell’esecuzione virtuosistica. L’essenziale ancora e sempre consiste nel cercare di attingere la verità ultima di queste pagine, per esempio col rendersi conto che un altro sguardo si dava sulla vita al tempo di Bach, di cui oggi si è perso il ricordo. La concezione della morte, per esempio: così lontana dalla percezione che ne abbiamo oggi, che è di tipo medico-clinico. Komm süsser Tod!: dolce in che senso? Non certo nel senso dell’eutanasia come è praticata da Exit! Ricordo, del Messia di Händel, la voce di Joan Sutherland nel passo famoso di Giobbe: «When the worms destroy this body, yet in my flesh shall I see God» (quando i vermi distruggeranno questo corpo, nella mia stessa carne vedrò Dio)! Vi è un ineffabile, in queste musiche, su cui, all’occorrenza, bisogna sempre riflettere: e se si volesse essere severi lo si dovrebbe pretendere dagli interpreti. Lo stesso Händel, dopo aver musicato le più sublimi sciocchezze che gli venivano sottoposte dai librettisti del suo tempo, al poeta che aveva scelto per lui i versetti della Bibbia, e che gli scriveva, dopo il Messia: la tua musica è piaciuta molto, rispondeva: «I wanted them better»: io volevo fare l’umanità migliore.
Enrico Morresi
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