Lavinia Sommaruga, responsabile di Alliance Sud a Lugano, intervista l’economista Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna e Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University. Dal 2019 è presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali. È autore di “L’economia civile. Un’altra idea di mercato” (con Luigino Bruni, il Mulino 2015) e “Disuguali. Politica, economia e comunità: un nuovo sguardo sull’ingiustizia sociale” (Aboca Edizioni 2020).
Professor Zamagni, già a luglio dello scorso anno il Sustainable development outlook 2020 prevedeva che fino a 100 milioni di persone sarebbero cadute in povertà, mentre secondo il rapporto di OXFAM (Oxford Committee for Famine Relief), nel 2020 si è registrata una crescita delle disuguaglianze in tutti i Paesi del mondo in contemporanea. Tutta colpa del Covid-19, “il virus delle disuguaglianze”?
È chiaro che la pandemia abbia acuito le disuguaglianze, ma non ne è, evidentemente, la causa. Il punto è che le disuguaglianze di oggi sono strutturali, cioè radicate nel sistema. Esse non sono attribuibili al cattivo comportamento di singoli e gruppi sociali, ma dipendono dal modo in cui sono scritte le regole che governano istituzioni economiche, finanziarie e politiche. Queste regole sono rimaste al 1944, quando a Bretton Woods si sono riuniti i principali Paesi industrializzati del mondo occidentale: già negli anni Settanta abbiamo visto effetti perversi di queste regole – penso ai paradisi fiscali – e poi ne sono seguiti altri. Inoltre, la questione della brevettazione di beni che non sono privati, ma beni comuni, non è stata neppure affrontata (le disastrose conseguenze sono evidenti più che mai oggi in tempo di Covid). Le regole del gioco sono tali che un’impresa, pur di fare profitto, si vede incentivata a inquinare e a deforestare.
A fronte dell’aumento della distanza che separa i ricchi dai nuovi poveri multidimensionali, che, come lei scrive nel suo libro Diseguali (2020), vivono per due terzi in Paesi considerati non poveri, c’è bisogno di un cambio di paradigma. A ricordarcelo è stata anche l’assemblea internazionale online degli scorsi 19-21 novembre, con i giovani di tutto il mondo e con sede virtuale ad Assisi, sul tema “The Economy of Francesco”.
Esatto. Anzitutto, mi faccia ribadire che i termini “povertà” e “disuguaglianza” non sono sinonimi. Essere uguali non vuol dire condurre la stessa vita degli altri, ma poter decidere quanto non essere uguali agli altri. Se vogliamo raggiungere la realizzazione dell’uguaglianza (quindi permettere a tutti di poter realizzare la propria diversità), è imperativo e necessario abbandonare il paradigma economico corrente, quello dell’economia politica, il quale parte dal presupposto che l’uomo sia un lupo per gli altri uomini (homo homini lupus) e ci dice come aumentare la ricchezza, ma non come ridistribuirla ed è quindi incapace di risolvere i grossi problemi e nodi delle nostre società. Ciò può essere fatto, invece, adottando il pensiero economico dell’economia civile teorizzato già nella seconda metà del 1700 a Napoli e il cui assunto, così come fu descritto da Antonio Genovesi, il primo ad occupare una cattedra di economia civile, è homo homini natura amicus, ovvero ogni uomo è per natura amico dell’altro uomo. Se parto dall’idea che gli altri sono potenzialmente degli amici, imposterò le mie relazioni (anche economiche) in una forma diversa, senza massimizzare il bene totale ma mirando al bene comune.
A che punto siamo per quanto riguarda la ricezione di questo modello economico nella società civile e nel mondo dell’imprenditoria?
Credo si possa essere moderatamente ottimisti. Anzitutto perché, paradossalmente, i primi a capirne l’importanza sono proprio gli imprenditori, che – in numero crescente – sono negativamente affetti dall’attuale sistema dell’economia di mercato. Pensiamo a questi mesi, in cui la pandemia ha arricchito notevolmente giganti quali Google e Amazon, per fare due nomi che conoscono tutti. Queste imprese, anche alla luce del particolare settore in cui operano, hanno aumentato i loro profitti di centinaia di miliardi. Per altri imprenditori, invece, le restrizioni economiche conseguenti alla diffusione del coronavirus hanno costituito perdite enormi. Il fatto che siamo in presenza di un sistema che arricchisce o impoverisce gli uni o gli altri (non per meriti) sta diventando chiaro, e inaccettabile, anche al mondo dell’imprenditoria.
Come lei ha ricordato, sia il paradigma dell’economia politica sia quello dell’economia civile hanno genesi in Europa: può allora il secondo funzionare anche in altri contesti geografici, come ad esempio il Sud America e altri Paesi poveri nel mondo?
Certo, perché l’economia civile è basata su presupposti antropologici e su principi di organizzazione dell’attività economica che sono presenti e apprezzati anche nel Sud del mondo. Per fare un esempio concreto, in Africa c’è una parola, “Ubuntu”, che non ha alcuna traduzione nelle lingue europee e si riferisce alla capacità di esprimere solidarietà mutuale con l’altro. Questa mutualità è centrale per il paradigma dell’economia civile, che sta diventando, seppur lentamente, anche oggetto di ricerche accademiche condotte nell’America latina, come all’Università di Córdoba in Argentina e all’Università di Puebla in Messico. Le cose si stanno muovendo, possiamo ben dirlo. Anche se ci vorrà tempo per rimuovere l’eredità del colonialismo culturale nei Paesi Occidentali, colonialismo che ha imposto, tanto nella pratica quanto nel mondo della ricerca, il paradigma dell’homo oeconomicus a culture per le quali la massimizzazione del self interest è un concetto estraneo!
Lavinia Sommaruga