Vent’anni anni di vita meritavano un intervento di restauro e noi abbiamo apprezzato, tra le altre cose, la rinnovata veste grafica del sito del festival: simpatica, sorprendente, che allude alla magia del teatro, con quelle lettere ballerine sullo schermo. Torniamo concreti (un certo tipo di teatro lo è ancora parecchio, per fortuna): ieri, incorniciate, impreziosite, dalla Cava Broccatello – dove il pubblico le ha potute apprezzare in tarda serata – quale ouverture del festival sono andate in scena le Metaforfosi di Ovidio; o meglio, da Ovidio, trattandosi di un indistinto racconto narrato da Gaetano Colella, Enrico Messina (anche regista) e Daria Paoletta (insieme a Messina anche autrice dei testi), vecchie e consolidate conoscenze del Festival di narrazione. La libertà che i tre narratori – basati in Puglia, terra generosissima di raccontastorie e bravi – si sono presi è quella di tradire, dichiaratamente tradire le classiche Metamorfosi. Ci si potrebbe chiedere perché mai. Per narrarle, per farle correre fin qui, e qui, ora, trattenerle per un paio d’ore, farlo sotto il cielo di Arzo, nel 2019, dove nessuno fra i presenti può fingere di non avere (avuto) almeno un iPhone (o tre, o cinque). A proposito di cielo: sono come universi in costante comunicazione le storie narrate in queste Metamorfosi e, che si creda a quelli naturali, junghiani, a quelli immaginari o sciamanici, qui gli archetipi affiorano tutti. E la radice del mito risuona con la sua chiarezza inestirpabile, pari solo – appunto – alla Natura e i suoi processi, le sue… metamorfosi. Probabilmente una giovane Arianna in blue-jeans e un novello Apollo con le cuffiette alle orecchie siano fermi al semaforo di una qualsiasi città, anche vicinissima a noi. O siedono al bar del nostro paesello che, poverino, amiamo ritenere tanto banale è affatto mitico. L’impresa dei tre artisti non è solo quella di consegnare a noi uomini tecnologici il candore (misto a tragedia) della scelta di Dafne, che da agnella che scappa da chi la desidera diviene albero per la paura; o lo strazio di Sisifo che quella pietra ormai l’ha levigata, a forza di su e giù per la collina; che dire poi del legittimo desiderio di Fetonte, del disperato giro di giostra sul carro d’oro di papà Giove che gli costerà la vita; o la meravigliosa narrazione dell’amore della spaziosa Aurora – rosa, azzurra, verde, giallo zafferano – per il suo Titone (che non muore però invecchia, che è peggio). Il merito dello spettacolo va all’empatia e la sobrietà di interpreti e interpretazione, che consentono alle storie, tutte, di riguardarci da vicino, intimamente: per questo, grazie a questo Ovidio ci chiama e tiene a sé con le sue vicende.
Raccontano di noi, non di estranei lontani nel tempo e nello spazio. Ed è tanto simile a noi ciò che qualcuno ha scritto tra il 2 e l’8 d.C., che siamo costretti (proseguiamo con la metafora tecnologica) a pigiare il pulsante “selfie”, guardarci in faccia e poi guardarci dentro. Una grande virtuosa nell’abbattimento di muri tra pubblico e attori (senza tuttavia rompere la quarta parete, troppo facile…) è senza dubbio Daria Paoletta la quale, anche grazie alla sua maestria coi pupazzi e le maschere, inserisce in queste Metamorfosi dell’esilarante teatro di figura. E occorre menzionare chi questa figura ancestrale di gommapiuma l’ha creata con le mani e con sapienza: Raffaele Scarimboli. Anche le battute legate all’attualità, o le incursioni musicali apparentemente kitsch o insensate (Gino Paoli in primis) qui sorprendono per la loro esattezza. Questo spettacolo è stato un prodigio anche dal punto di vista produttivo: accanto alla preparazione artistica, durata due anni, è stato un progetto di crowdfunding che ha preso origine proprio a Arzo a rendere possibile la sua finale messinscena. Insieme ai coproduttori Armamaxa teatro e PagineBiancheTeatro. Last but not (at all) least: le musiche dal vivo di Mauro Francioso, che sono un quarto personaggio, una presenza ulteriore e non mero accompagnamento o, come accade altrove, un riempitivo. Sacro, immortale, fondamentale: aggettivi azzeccati per il poema epico-mitologico in latino di 11.995 versi divisi in 15 libri di Publio Ovidio Nasone; e noi queste tre parole le accostiamo senza indugio anche a questa nuova, dolce, sensibile traduzione delle Metamorfosi. Perché quel seme di immortalità e sacralità ce l’hanno fatto sentire ed è… importante.
Margherita Coldesina